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venerdì, Aprile 19, 2024

Vent’anni di riforme del mercato del lavoro. Ma il dualismo Nord-Sud è aumentato

Nell’ultimo ventennio, il mercato del lavoro italiano ha subito profonde trasformazioni. Le riforme che si sono susseguite − dal “Pacchetto Treu” (L. 196/97) alla “Legge Biagi” (2003), fino al Jobs Act (2015) – hanno introdotto nuove tipologie contrattuali, eliminato alcune norme ritenute eccessivamente vincolanti, come l’art. 18, e accresciuto la flessibilità del lavoro, al fine di renderlo meglio rispondente alle esigenze delle imprese.

Uno dei dati più significativi delle trasformazioni del lavoro è il costante incremento dei contratti a tempo determinato. Nel 2017, in Italia quasi il 16% degli occupati dipendenti aveva un contratto a termine. È una percentuale inferiore a quella di altri paesi europei, come Spagna (26,7%) e Francia (17%), ma superiore a quella della Germania (13%) e alla media dell’Ocse. La diffusione del lavoro precario e “atipico” riguarda, infatti, la maggior parte delle economie avanzate.

Per avere una rappresentazione più realistica della situazione occupazionale italiana bisogna guardare ai dati regionali più che a quelli medi nazionali. Il mercato del lavoro è, infatti, segmentato tra Nord e Sud, come dimostrano tutti gli indicatori, a partire dai tassi di occupazione. Nel primo trimestre di quest’anno, il tasso di occupazione nel Nord sfiorava il 67%, mentre nel Mezzogiorno era del 43,3% anche a causa della bassissima occupazione femminile. Nell’ultimo ventennio, le differenze tra Nord e Sud si sono accresciute.

Come mostra la fig. 1, il tasso di occupazione meridionale nel 1997 era l’82 per cento di quello medio nazionale; nel 2017 era sceso al 76 per cento. Una dinamica simile ha riguardato il tasso di occupazione giovanile e nella fascia 25-34 anni. Nonostante le riforme avessero l’obiettivo di accrescere l’occupazione nelle regioni meno sviluppate, il dualismo tra Centro-Nord e Mezzogiorno si è progressivamente acuito.

Fig. 1. Tasso di occupazione del Mezzogiorno in percentuale di quello medio italiano 1995-2017 – Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro.

Differenze esistono anche quando si considera la diffusione del lavoro precario. Nel 2017, i lavoratori italiani con un contratto a termine erano 2,7 milioni, a fronte dei quasi 15 milioni di occupati a tempo determinato (di cui, circa 2,7 milioni con contratti a tempo parziale). Ai dipendenti a termine andrebbero aggiunti tutti quei precari con rapporti di lavoro di breve durata, come quello intermittente, quelli con false partite IVA (che mascherano forme di lavoro dipendente) e i lavoratori che svolgono attività esternalizzate. Come mostra la figura 2, dal Pacchetto “Treu” ad oggi, la quota dei lavoratori a tempo determinato è aumentata in tutto il paese, ma nel Mezzogiorno in misura maggiore. Nel 2017, nel meridione un occupato dipendente su cinque era a termine. Le forme di lavoro atipico riguardano, infatti, principalmente i neoassunti e quelli che, pur adulti, rimangono a lungo in una situazione di precariato. Nel Mezzogiorno, nel 2017, ben il 40 per cento dei lavoratori dipendenti con meno di 35 anni aveva un contratto a tempo determinato.

Figura 2. Dipendenti a termine sul totale, Italia e Mezzogiorno 1995-2017 (%) – Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro.

Come nel resto d’Europa, anche in Italia la precarietà del lavoro si associa con crescenti disuguaglianze e nuove forme di povertà. I nuovi poveri sono spesso giovani e lavoratori. Nel 2017, quasi il 12% delle famiglie italiane di operai versava in una condizione di povertà assoluta. Le disuguaglianze tra generazioni stanno aumentando.

Cosa spiega questa crescente diffusione della precarietà del lavoro in Italia e in Europa? Flessibilità e deregolamentazione del lavoro sono state le risposte che i governi europei hanno dato, nell’ultimo ventennio, alla globalizzazione e all’automazione della produzione, due fenomeni che, congiuntamente, hanno messo sotto pressione le economie più avanzate. Per trattenere gli investimenti e per sostenere l’occupazione si è cercato di adattare il lavoro alle esigenze della produzione. Questa visione – rispondente all’approccio liberista – dimentica che il lavoro non è un fattore produttivo qualunque, e che il mercato del lavoro è molto diverso da ogni altro mercato. Il lavoro si identifica con il lavoratore, cioè con una persona, e il mercato del lavoro, prima di essere un’istituzione economica è un’istituzione sociale, come ricordava il grande economista Robert Solow. La flessibilità che si trasforma in precarietà, in una condizione prolungata d’incertezza, cessa di essere un elemento funzionale all’economia, ma diventa disfunzionale e comporta costi economici e sociali. La regolamentazione del mercato del lavoro non riguarda solo l’efficienza economica. Riguarda anche l’equità sociale.

Vittorio Daniele

Nota: per i dati sul lavoro precario in Europa, si veda: OECD, Employment Outlook 2018, OECD, http://www.oecd.org/els/oecd-employment-outlook-19991266.htm. Per l’Italia, si vedano i dati Istat http://dati.istat.it. Per la povertà: Istat, La povertà in Italia nel 2017 (26 giugno 2018), https://www.istat.it/it/files//2018/06/La-povert%C3%A0-in-Italia-2017.pdf. Cfr. pure, V. Daniele, Le due Italie del lavoro, http://www.economiaepolitica.it/industria-e-mercati/mezzogiorno/le-due-italie-del-lavoro/ le cui argomentazioni sono in parte riprese in quest’ articolo.

 

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