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venerdì, Marzo 29, 2024

Una nuova Rerum Novarum per la quarta rivoluzione industriale

Nell’era della quarta rivoluzione industriale, meglio conosciuta come Industry 4.0, urge una riflessione sul lavoro, sulle sue trasformazioni, sulle conseguenze che il lavoro nuovo ha sulla persona che lo svolge e sull’intera società. Sono trascorsi quasi due anni dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco e, nonostante personaggi di spicco del mondo sindacale, economico, politico, continuino a ricordarne il messaggio importante (che nessuno smentisce), si avverte la mancanza di un pronunciamento magisteriale sulla quarta rivoluzione industriale, di una nuova Rerum Novarum per illuminare e spiegare le cose nuove di oggi.

I lavori della 48° Settimana Sociale sono ormai avviati e ciò che desta attenzione e preoccupazione non è tanto il silenzio con il quale procedono, come ha tuonato ieri lo storico e sociologo Giorgio Campanini dalle colonne di Avvenire, bensì la qualità della messa a fuoco dei lavori sull’argomento cruciale del lavoro. Gioco di parole a parte, il problema rimane serio. Quanto l’esperienza di questa Settimana Sociale si candida ad essere un laboratorio utile ad offrire elementi per quel nuovo pronunciamento succitato?

Il dato emerso dal recente Convegno Chiesa e Lavoro: quale futuro per i giovani del Sud, svoltosi a Napoli, non lascia dubbi: si insinua in modo sempre più insidioso un’enorme confusione, specie tra i giovani, tra il concetto di buone pratiche e di politiche attive del lavoro. La maggior parte dei video con le quali le diocesi hanno contribuito ai lavori del convegno non evidenziavano, come richiesto, esperienze di lavoro, bensì la messa in campo di buone pratiche per includere: campetti di calcio, opere di volontariato, e così via.

Se vogliamo parlare di lavoro, di lavoro vero, di quello che crea ricchezza, profitto da redistribuire, è necessario focalizzare l’attenzione sulle politiche attive del lavoro (occupabilità, adattabilità, imprenditorialità, pari opportunità), non sulle buone pratiche. Sull’importanza del profitto, magari, potrebbe essere utile rispolverare l’enciclica Centesimus Annus:

La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda: quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia, il profitto non è l’unico indice delle condizioni dell’azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. (…) Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa.

L’esempio delle buone pratiche può servire per iniziare, per muovere i primi passi, ma poi i giovani, e non solo, hanno bisogno di strumenti per rimanere sul mercato, per resistere. In questo senso le buone pratiche servono, ma non sono la soluzione. Tra le buone pratiche, inserite all’interno del progetto “Cercatori di LavOro, costituito proprio in vista della prossima Settimana Sociale, è stata menzionata l’attività svolta da un’associazione di promozione sociale, senza scopo di lucro, che vanta pochi dipendenti e molti collaboratori e volontari.

Quale ricchezza può produrre un’associazione senza scopo di lucro? Un’associazione senza scopo di lucro può offrire valore, inclusione, solidarietà, ma non lavoro o ricchezza. Il nostro Paese ha stramaledettamente bisogno di ricchezza da investire. Quale tipo di ricchezza possono produrre simili associazioni? Semmai sottraggono risorse per se stesse, senza poterle reinvestire in modo da produrre un utile, facendo così aumentare il numero dei volontari, che poi volontari non sono, visto il lavoro continuativo e ordinario che svolgono. Anche in questo caso, come accennato da San Giovanni Paolo II in merito al profitto e ai conti in ordine dell’azienda, che potrebbero invece nascondere nefandezze, potrebbe verificarsi che, dietro il valore sociale e il fine nobile di tali associazioni, si nascondano eserciti di falsi volontari, di questioni normali nella forma e drammaticamente ingiuste nella sostanza.

Tutto questo dove porta? Non è in discussione il valore e il nobile ruolo di simili realtà, ma i problemi di cui parlare sono altri: i finanziamenti, l’accesso al credito, i contratti, la burocrazia, le politiche fiscali, la concorrenza, il modo di lavorare che cambia nella quarta rivoluzione industriale. Prendiamo ad esempio lo smartworking, che prevede il lavoro svolto da casa o, comunque, fuori dall’azienda, dal momento che ciò che conta, oggi, è l’obiettivo da raggiungere.

Come incide questa nuova condizione sulla persona? Quali complicanze può avere, a lungo andare, quel modo di lavorare “da casa”, fatti salvi i benefici effetti di un minor inquinamento ambientale? Una persona deve avere degli orari, deve confrontarsi con gli altri, relazionarsi, deve rispettare una disciplina, altrimenti potrà anche portare a termine il lavoro da fare, pure con enorme successo, ma magari rimanendo in pigiama tutto il giorno.

E’ la stessa cosa per uno studente preparare gli esami non frequentando l’università oppure è necessario, per un buon risultato e per la crescita della persona, che frequenti l’ateneo, che si confronti con altri studenti e con i professori, che respiri l’aria di quei luoghi?

Che fine fa la dimensione relazionale dell’impresa? Siamo destinati a diventare larve o a rimanere persone?

Che significato assume, oggi, l’aspetto oggettivo e soggettivo del lavoro, transitivo ed intransitivo, di cui ci parlò San Giovanni Paolo II nella Laborem Exercens, nel 1981, dal momento che la quarta rivoluzione industriale significa “connessione tra sistemi fisici e digitali, analisi complesse attraverso Big DATA e adattamenti real-time, utilizzo di macchine intelligenti, interconnesse e collegate ad internet”? Cosa vuol dire, oggi, mettere la persona al centro? Leone XIII scrisse nella Rerum Novarum che il lavoro ha due caratteri principali: è personale e necessario. A questi caratteri, oggi, dobbiamo aggiungere altri? Quali e perchè? E sul valore del risparmio cosa possiamo dire se il comando, quasi quasi giustificato, è sopravvivere con le “una tantum” di turno?

Sarebbe bello e importante che ai lavori della prossima Settimana Sociale contribuissero, attraverso una sezione specifica, anche i Consulenti del lavoro, i commercialisti, professionisti che toccano il lavoro da vicino, che conoscono davvero il mondo e i problemi delle imprese. Tutto questo per non perdere un’occasione importante, per rinvigorire il pensiero sociale della Chiesa, per rimettere ordine e ripartire.

 

 

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