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venerdì, Marzo 29, 2024

Smart workers: agili o intelligenti?

In un’epoca in cui tutto è divenuto flessibile, mobile, fluido, non si poteva certo non spogliare lo smart working del suo originario significato di “lavoro intelligente” per appiccicargli addosso un altro che fosse più rispondente ad un’idea di lavoro che proprio parole come flessibilità o mobilità possono aver generato: lavoro agile. La libertà di interpretazione adottata appare ancora più evidente se il termine agile viene affiancato a quello di “lavoratori”, che diventano, così, smart workers.

Un’espressione che dice tutto e non dice niente, che non può non porci di fronte ad un interrogativo, seppur non amletico: lavoratori agili o intelligenti? Non che le due condizioni si escludano a vicenda! Va detto, però, che in una società in cui il lavoratore viene sempre più considerato una merce o, in un’accezione più nobile, uno strumento, la questione posta non è affatto oziosa o trascurabile e che il concetto di agilità può trovare una sua precisa e preoccupante giustificazione.

Il disegno di legge attuale definisce lo smart working “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, in cui la prestazione è contraddistinta dall’esecuzione della stessa in parte all’interno di locali aziendali ed in parte all’esterno, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro, giornaliero e settimanale, derivanti dalla disciplina legislativa e dalla contrattazione collettiva, nonché dall’assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti all’esterno (dei locali aziendali). Nel lavoro agile, inoltre, può essere previsto l’impiego di strumenti tecnologici (per lo svolgimento dell’attività lavorativa) e – come specificato dalla 11a Commissione del Senato – si possono adottare forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”.

Tutto questo per incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Nel disegno di legge riscontriamo che “l’esterno dell’azienda” non corrisponde necessariamente, come viene spesso e detto, alla casa di abitazione del lavoratore. Anzi, quanto appena menzionato specifica “l’assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti all’esterno (dei locali aziendali)”. Questo punto andrebbe meglio specificato almento per tre motivi: per non ridurre il lavoratore ad una trottola, condizione che con la conciliazione dei tempi di vita e del lavoro poco ci azzecca; per non venire meno ad uno degli obiettivi dello smart working che è l’aumento di produttività; per consentire che quanto viene precisato al comma 3 dell’articolo 19 ossia che “il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali”, sia rispettato.

Cosa si intende affermare, infatti, con assenza di postazione fissa se nel testo, successivamente, si fa riferimento ad un luogo prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali? La scelta della postazione deve essere definita preventivamente ed è a totale discrezione del lavoratore oppure deve essere soggetta a valutazione da parte del datore di lavoro?

Il comma 1 dell’articolo 16 prevede chel’accordo relativo alla modalità di lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova”. Cosa deve definire tale accordo? Presto detto: i profili che riguardano, in particolare, tempi di riposo e, per la prestazione all’esterno dei locali, “i poteri di direttivo e di controllo del datore di lavoro, gli strumenti impiegati dal dipendente, le condotte che diano luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari”.

Come scrive Marco Bentivogli (Segretario generale Fim CISL) nel suo libro “Abbiamo rovinato l’Italia” – Perchè non si può fare a meno del sindacato, “il lavoro smart non deve essere un lavoro senza regole” e “il lavoro agile non si deve tradurre in una deregolamentazione del lavoro, in una solitudine organizzativa o in una diminuzione delle tutele dei lavoratori; bisogna inoltre garantire la loro sicurezza, così anche come la protezione dei dati”. Peccato che la parte del disegno di legge relativa a quest’ultimo elemento, l’articolo 17, sia stato soppresso.

Sempre nello stesso testo, Marco Bentivogli arriva a porsi una domanda coraggiosa: imprenditori si diventa? Domandarsi chi sia, oggi, l’imprenditore è uno dei punti cruciali da affrontare. E’ l’imprenditore che offre il lavoro pertanto la domanda non può essere elusa. Tanto più in un momento in cui, a causa dell’aumento della disoccupazione, viene meno la forza contrattuale del lavoratore che è aperto a tutto, o quasi, pur di lavorare.

Benedetto XVI, nella Caritas in Veritate, ricorda che “l’imprenditorialità, prima di avere un significato professionale, ne ha uno umano. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come actus personae, per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso sappia di lavorare in proprio”.

Allora la domanda ritorna: smart workers sta per lavoratori agili, perchè con sempre meno peso contrattuale, o intelligenti, perchè capaci di opporsi alla mentalità, sempre più insidiosa, del “qui si viene pensati” e di vivere  l’imprenditorialità nel suo significato umano?

Urge una risposta che, ovviamente, non potrà dare solo la legge.

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