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sabato, Aprile 20, 2024

Professione reporter: c’era una volta la notizia

Per il giornalismo italiano vale ancora l’espressione “stare sul pezzo”? O meglio, che significato le viene ancora attribuito? La sensazione che si ha, aprendo i quotidiani, cartacei o online che siano, seguendo i vari talk televisivi, è che oggi la mission preponderante sia una soltanto: spolpare l’osso per servire la mano che “benevolmente” lo lancia. Che fine fa, a conti fatti, la notizia?

Può succedere che, sfogliando un quotidiano, ci imbattiamo in una lettera di un direttore alla dirigente di uno dei sindacati più importanti del nostro Paese, un documento composto da parole che avrebbero potuto essere rivolte in privato, come gesto di correzione fraterna, data l’amicizia e il percorso in comune; in una messa in stato d’accusa del sindaco della capitale d’Italia su alcuni fatti non penalmente rilevanti, come stabilito dalla Procura, sostenuta da una innumerevole mole di slogan e frasi ad effetto, salvo poi invocare il rispetto per le donne; in gogne mediatiche che hanno “costretto” alla fuga dal nostro Paese personaggi di spessore come Ilaria Capua, senza che nessuno abbia, poi, a chiusura delle indagini (siglate da “un non luogo a procedere”), abbia scritto un trafiletto con delle scuse.

Scuse alla persona, scuse a se stessi per non aver assolto al meglio la propria missione di giornalista, scuse al Paese per l’impoverimento a cui lo ha sottoposto, scuse per non aver rincorso o cercato una notizia da raccontare, ma per aver fomentato insinuazioni e per aver emesso una sentenza prima e al posto dei tribunali. Non ci sono settori più esposti di altri a questa deriva, perchè il punto non è l’argomento di cui ci si occupa, bensì il tipo di approccio. Anche quando un’ inchiesta riguarda temi importanti, serve a denunciare il malaffare, la corruzione, l’illegalità, non sembra prevalere da essa lo spirito di ascolto verso le realtà affiancate, bensì lo stile dell'”adesso ti sgamo”, dietro il quale si nasconde una verità che si pensa di possedere ancor prima di conoscere i contorni di una situazione.

Indro Montanelli, qualche anno fa, rispondeva così, dalle colonne di un quotidiano nazionale, ad un giovane desideroso di comprendere cosa volesse dire essere giornalista: “Il giornalista non è più il veicolo delle notizie, bensì l’interprete; deve interessare, rispondere, incuriosire, sorprendere, affascinare, magari divertire, a secondo dei casi e delle necessità. Il giornalista ha un editore di cui non deve essere schiavo ma che non può neppure ignorare. C’è chi non prova a essere imparziale perchè ritiene che la parzialità sia una forma di spettacolo. C’è chi ha imparato l’equilibrismo; chi si è ritagliato un ruolo di giamburrasca”.

Comunque sia, quando un malessere diventa evidente, come nei casi suesposti, se si rimane in superficie, non si fa nessun passo in avanti nella sua comprensione. Indro Montanelli, infatti, parlava del significato della professione di giornalista, mentre oggi interessano di più le condizioni in cui una persona riesce, o è costretta, ad esercitare questa professione. Nel Rapporto “Quando si vince, quando si perde”, pubblicato dal Gruppo di Lavoro Precari e Freelance del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti nell’ottobre del 2015, Enzo Jacopino, l’allora Presidente Odg,  scriveva:

Il prezzo della “schiavitù” in italia è pari a 4.980 euro l’anno: tasse, spese, abstract, foto e video compresi. È quello che emerge da qualche contratto pubblicato, che non ha provocato l’indignazione che mi sarei aspettato. Già, la politica, quella con la p minuscola, si indigna solo quando qualcuno di noi muore. Non si preoccupa dei sogni devastati, delle violenze quotidianamente subite in silenzio, del “caporalato” che dilaga impunito nella nostra professione. (…) La precarietà di tanti, troppi colleghi collaboratori che per le loro testate – televisive, cartacee o digitali – sono ormai delle “colonne portanti “. In certi casi non da un anno o due, ma da più di un decennio. Costretti a consumare sogni e suole. in silenzio, per evitare che il telefono smetta di trillare o che il contrattino (sempre più …ino) non venga rinnovato. Noi ci commuoviamo o ci esaltiamo davanti a movimenti che attraversano l’Europa. Ma la nostra capacità di indignarci dove è finita? In fondo ad un buco, in compagnia del sentimento di solidarietà che, se ci fosse, porterebbe i sempre meno garantiti e i molto più numerosi precari ad incrociare le braccia, facendo capire agli editori che non possono continuare a ingrassare i bilanci delle loro numerose attività terze, che prosperano anche grazie al fatto che controllano mezzi di informazione. La crisi c’è, innegabile. Ma la pagano prevalentemente gli ultimi”.

E’ strano sentir pronunciare il termine “caporalato” nell’ambiente giornalistico, abituati come siamo a pensare a questa forma di schiavitù nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia, dove forte è anche la presenza di immigrati, in uno scenario caratterizzato da povertà e da tendopoli abbandonate.

Il punto è che oggi, pur di lavorare, pur di avere uno straccio di paga, si è disposti anche ad accettare condizioni contrattuali misere, ad andare in cerca di “notizie” sensazionali. Tutto pur di farsi strada, pur di non soccombere, pur di vendere, pur di scrivere quello che piuttosto si preferirebbe vomitare (assoluzione al posto di prescrizione, ad esempio), pur di fare la differenza in un mondo che apprezza il voyeurismo più della notizia. Il risultato è sotto i nostri occhi: titoli ripugnanti, conversazioni rubate e sbattute in prima pagina, conversazioni inventate, intercettazioni telefoniche a profusione, articoli inneggianti al nemico straniero che ci invade inesorabilmente. Tutto al limite del reale, tutto per vivere in una realtà sempre più dura, in una pazza corsa.

Certo, va detto che un’ informazione così atipica non è del tutto attribuibile alle difficoltà lavorative esistenti e appena descritte, come è importante precisare che ci sono molti giornalisti di vera classe (soprattutto quanto a educazione e moderazione). Non possiamo non rilevare, però, che ci ritroviamo in una società sempre più divisa, sempre più angosciata, dove prevalgono le crociate personali a discapito del bene comune, dove “stare sul pezzo” significa, sempre più spesso, spolpare l’osso per servire la mano che “benevolmente” lo lancia.

Il lavoro svolto dai giornalisti, senza pregiudizi nè preconcetti, nel nostro Paese come in continenti lontani, accanto ai poveri, nelle terre che nessuno ricorda se non saltuariamente, rapporti come quello redatto dal Gruppo di Lavoro Precari e Freelance, parole come quelle pronunciate dal Presidente dell’Ordine Nazionale dei giornalisti Enzo Jacopino sono, pur nella loro drammaticità, segni di speranza, segni di coraggio e riscatto, tutto a favore dell’importanza di una informazione “sana”, sotto tutti i punti di vista.

Scriveva Benjamin Disraeli: “La notizia è quella che viene da Nord, Est, Ovest e Sud, e se proviene da un solo punto cardinale, allora è un articolo classista e non una notizia”.

E gli editori? Beh, anche loro potrebbero iniziare a riscoprire meglio il concetto della responsabilità sociale d’impresa.

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