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venerdì, Marzo 29, 2024

Reddito di cittadinanza: da assistenzialismo a politica attiva per il lavoro

Una proposta concreta a cura del dott. *Paolo Stern

Il reddito di cittadinanza costituisce un elemento centrale nella manovra economica dell’attuale Governo. Lo strumento mira, in termini ancora da definire, a contrastare una situazione straordinaria di disagio economico in cui versa un’ampia fascia del Paese. Si stimano oltre 5 milioni di italiani sotto la soglia di povertà.

La misura è inserita nel contratto di Governo e pertanto molto attesa. La sua declinazione in termini concreti fa emergere contrastanti posizioni. Al di là dell’impatto sui conti pubblici che avrebbe una simile misura (780,00 euro al mese per una amplissima platea di destinatari) è il principio stesso, erogare una indennità a fronte di nulla, a muovere valutazioni negative. Una misura, il mero sussidio, che potrebbe scoraggiare la ricerca di un lavoro o addirittura favorire il lavoro nero. Nelle dichiarazioni degli esponenti politici del Governo e della maggioranza si cerca di rassicurare evidenziando l’attivazione di controlli serrati e soprattutto condizionando la fruizione del sussidio all’accettazione delle proposte di lavoro provenienti dai Centri per l’Impiego. Entrambi i punti sembrano essere più auspici che elementi di concretezza.

I Centri per l’Impiego (CPI) costituiscono la rete pubblica che dovrebbe avviare al lavoro gli inoccupati ed i disoccupati. Sono gestiti dalle Regioni con risultati molto diversi sul territorio nazionale. Per ragioni strutturali hanno capacità operativa molto limitata, si stima che solo il 3% dei rapporti di lavoro sia avviato grazie al loro intervento. Di fatto oggi svolgono principalmente funzioni burocratiche certificatorie relativamente alla posizione di chi mette alla ricerca di lavoro. Se pertanto il reddito di cittadinanza si fermasse a fornire un sussidio a chi si trovi nel bisogno, lasciando ai Centri per l’Impiego la funzione di cercare loro un lavoro ed offrirlo condizionando così il mantenimento del sussidio, ci troveremo di fronte alla più grande manovra di politica passiva di contrasto alla povertà ma che probabilmente, oltre al costo enorme per la collettività, finirebbe per allontanare dal mondo del lavoro definitivamente migliaia di cittadini specialmente nel nostro mezzogiorno.

Regala un pesce e sfamerai un uomo per un giorno, insegnagli a pescare le lo sazierai a vita.

Ecco in questo antico proverbio si racchiude l’eterno contrasto tra politiche passive e politiche attive del lavoro. Forse la via giusta sarebbe regala un pesce, altrimenti muore di fame, ma unitamente insegnagli a pescare. Per fare ciò ritengo si dovrebbe avviare coraggiosamente, ma il RdC è manovra di per sé quasi spregiudicata, una sperimentazione nuova attingendo dalle primissime esperienze di politica attiva avviate nel nostro Paese (Garanzia Giovani e Assegno di Ricollocazione) per reperirne gli elementi migliori.

Il rapporto di integrazione lavorativa

Ipotizziamo che ogni destinatario di reddito di cittadinanza (RdC) possa divenire un soggetto “interessante” per il mercato del lavoro poiché portatore di una dote economica e di interventi formativi e di addestramento per cercare di recuperare i suoi gap funzionali rispetto alle vigenti esigenze del mercato del lavoro.

L’assegnatario del RdC potrebbe essere preso in carico dal CPI che procederebbe, come per l’assegno di ricollocazione, alla sua profilazione secondo usuali criteri (fascia bassa, media e alta). Per facilitare tale compito le Regioni potrebbero stabilire modalità, secondo specifiche linee guida dell’ANPAL, per assegnare la funzione della “profilazione” anche soggetti privati, le Agenzie per il Lavoro APL, specialmente ove la richiesta dell’utenza superasse le possibilità operative dei CPI locali.

Una volta profilato il percettore di sussidio sarebbe destinatario di assegno di ricollocazione (ADR) e quindi dovrebbe scegliere obbligatoriamente una APL, o lo stesso CPI, per un aiuto nella ricerca dell’impiego. Il passaggio sarebbe obbligatorio pena la perdita del sussidio.

Qualunque operatore economico privato potrebbe avviare al lavoro un percettore di RdC, oltre che con gli ordinari contratti di lavoro, anche attraverso uno strumento di “inserimento graduale e flessibile” che denominiamo Rapporto di Integrazione Lavorativa (RIL). Non si applicherebbero ai lavoratori inseriti con RIL le disposizioni previste per il lavoro dipendente, parasubordinato e autonomo se non espressamente richiamate dalla legge.

Si avrebbe pertanto un contratto di lavoro di inserimento atipico e flessibile che favorirebbe la “messa in circuito lavorativo” del percettore di sussidio assistenziale.

La durata del RIL sarebbe variabile a seconda della profilazione ricevuta dal CPI o dalla APL a ciò demandata.

 Profilazione  Durata
 Bassa  12
 Media  8
 Alta  6

Il lavoratore avviato con il RIL percepirebbe una indennità economica non inferiore al 50% e non superiore al 70% del RdC. In caso di prestazioni inferiori a 40 ore settimanali l’indennità sarebbe proporzionalmente ridotta. L’indennità non sarebbe soggetta a contribuzione previdenziale né fiscalmente imponibile.

Il datore di lavoro sarebbe tenuto ad assicurare i lavoratori contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) ed ad applicare le disposizioni di cui al Dlgs 81/08.

L’attività lavorativa dovrebbe essere supportata da percorsi formativi appositamente finanziati dalle Regioni e dai Fondi Interprofessionali. In caso di assenza di finanziamento nessun onere formativo, se non quelli insiti nell’attività lavorativa, graverebbe sul datore di lavoro.

Il lavoratore inserito con il RIL percepirebbe, oltre all’indennità da parte del datore di lavoro, anche il 50% del sussidio (RdC) erogato dall’INPS (o da altro ente che dovesse assolvere a tale ruolo). Il lavoratore pertanto avrebbe in tasca una somma non inferiore al RdC ma sarebbe inserito in un circuito virtuoso di ricollocazione. Lo Stato avrebbe pertanto assolto all’immediato compito di strapparlo dalle sacche di povertà ma anche nella ben più importante funzione di restituirgli la dignità propria di lavoratore.

Il rapporto sarebbe regolato dettagliatamente secondo le disposizioni di un DM del Ministero del Lavoro secondo principi dettati dal Legislatore, quali:

  • copertura economica in caso di assenza per infortunio sul lavoro, malattia e maternità. In questi casi gli oneri sarebbero a carico, per durate differenziate sia del datore di lavoro che dell’INPS (o altro ente gestore del RdC);
  • durata settimanale dell’attività lavorativa e formativa che non può superare le 40 ore. Ogni 3 mesi di lavoro il lavoratore avrebbe diritto di assentarsi, senza perdere l’indennità, per un massimo di 6 giorni per recupero psicofisico;
  • limitazioni e divieti. Verrebbero riproposte le limitazioni già conosciute in caso di attivazione tirocini o di contratti di lavoro agevolati, come per esempio il divieto di attivare RIL i datori di lavoro che avessero proceduto a licenziamenti per GMO o collettivi nella medesima unità produttiva nei 6 mesi precedenti;
  • interruzione del rapporto. Il RIL si potrebbe interrompere unilateralmente con preavviso di 15 giorni sia da parte del datore di lavoro che del lavoratore. Durante il primo mese di lavoro le parti potrebbero interrompere il rapporto senza obblighi di preavviso. Il datore di lavoro che abbia interrotto unilateralmente oltre il 50% di RIL, o non li abbia convertiti in ordinari rapporti di lavoro, attivati perde il diritto di attivarne altri per i successivi 6 mesi.

Il RIL cessa a naturale scadenza.

Il datore di lavoro potrebbe stipulare entro il periodo di vigenza del RIL, e fino ad un mese dalla sua scadenza, un successivo contratto di lavoro con il lavoratore di qualunque tipologia prevista dall’ordinamento. Il RdC percepito dal lavoratore in costanza di RIL consentirebbe, essendo comunque equiparato ad un sussidio di disoccupazione, allo stesso di essere assunto con le tipologie contrattuali previste per i percettori di NASPI (per esempio apprendistato per ricollocazione).

Il lavoratore che interrompesse senza giusta causa un rapporto di RIL perderebbe il diritto al percepimento del RdC.

Per attivare un sistema di ricollocazione realmente virtuoso è indispensabile che tutte le parti (imprese, destinatari di RdC, Fondi Interprofessionali, Regioni) agiscano con forte senso civico e responsabilità.

Il datore di lavoro che inserisse nella sua impresa lavoratori destinatari di RIL, che probabilmente in partenza potrebbero non avere skills professionali elevati, dovrebbe essere destinatario di vantaggi competitivi come un credito di imposta pari alle somme erogate a titolo di indennità ai lavoratori inseriti con RIL e vantaggi nella partecipazione a bandi pubblici. Il destinatario del RdC, e futuro lavoratore, sarebbe il vero protagonista dell’operazione e dovrebbe pertanto agire con la conseguente diligenza e responsabilità. Dovrebbe essere disincentivata l’inerzia con un meccanismo di riduzione del RdC al trascorrere del tempo, un po’ come avviene per la NASPI.

Il meccanismo sommariamente delineato, e che ovviamente dovrà essere dettagliatamente disciplinato, avrebbe immediati benefici:

  • per la collettività: la spesa per il RdC sarebbe immediatamente dimezzata per l’intervento del datore di lavoro che si caricherebbe il 50% del costo;
  • per il lavoratore: perché allontanato dalla sacca di povertà e sarebbe reinserito in un virtuoso circuito lavorativo, non solo sussidio ma tanta dignità;
  • per il datore di lavoro: perché potrebbe inserire nuova manodopera a costo molto contenuto e sarebbe incentivato a mantenerla in forza per la possibilità di stipulare un contratto di apprendistato. A ciò sarebbero da aggiungersi i crediti di imposta ed i vantaggi nella partecipazione a gare pubblici.

 

Paolo Stern
Consulente del Lavoro, membro del comitato tecnico scientifico di InContra

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