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mercoledì, Aprile 24, 2024

Primo maggio: prima in campo, poi in piazza

“Che ne sai tu di un campo di grano?”, cantava Lucio Battisti negli anni ’70.

Se pensiamo alla Strage a Portella della Ginestra, avvenuta il primo maggio del 1947, che proprio oggi ricordiamo, possiamo dire di conoscere poco, non della Storia e dei fatti di allora, ma della battaglia di coloro che hanno perso la vita per difendere il lavoro, liberarlo, come ci piace dire oggi, dalla schiavitù, da un potere arrogante e mafioso. Tanti papà, tanti bambini, donne incinta. Contadini in lotta per un riscatto sacrosanto, per un pezzo di terra da coltivare, colpiti in un momento di protesta (contro il latifondismo) e, insieme, di festa (la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana).

Quando, sempre oggi, sentiamo dire “Addio alla festa del Primo maggio”, che è “un controsenso festeggiare il lavoro mentre in Italia il lavoro è così poco e mal remunerato”, dichiariamo di non aver capito proprio nulla di questa festa e, allo stesso tempo, impoveriamo il martirio di chi, invece, ha lottato in assenza di un lavoro dignitoso ma in vista di un lavoro che potesse esserlo. Una battaglia conosciuta a molti di noi, oggi.

Una battaglia combattuta con strumenti diversi, in tempi diversi, resi difficili non soltanto dalla corruzione o dalla mafia, da una politica e legislazione inadeguate, ma anche dalle scelte egoistiche della gente comune, gente della porta accanto, che magari ha anche corrotto o si è lasciata corrompere in nome del lavoro, o che ha assicurato un voto per ottenere una sistemazione, che ha sperperato risorse, investito male.

I problemi che viviamo, le ingiustizie, le disuguaglianze sono figlie di molti peccati “partoriti” nel passato, per i quali non c’è mai stato un reale pentimento, tanto che, sotto un accurato maquillage, vengono compiuti ancora.

E poi c’è la piazza. La piazza guidata dal sindacato. Un sindacato che somiglia, forse, a quello in cui ha militato Placido Rizzotto? Un sindacato che somiglia un po’ al ritratto tracciato da San Giovanni Paolo II nella Laborem Exercens, che sa guardare al bene nella sua interezza e non a quello di singole categorie? Ricordiamo un breve passaggio dell’enciclica (1981):

I giusti sforzi per assicurare i diritti dei lavoratori, che sono uniti dalla stessa professione, devono sempre tener conto delle limitazioni che impone la situazione economica generale del paese. Le richieste sindacali non possono trasformarsi in una specie di «egoismo» di gruppo o di classe, benché esse possano e debbano tendere pure a correggere – per riguardo al bene comune di tutta la società – anche tutto ciò che è difettoso nel sistema di proprietà dei mezzi di produzione o nel modo di gestirli e di disporne. La vita sociale ed economico-sociale è certamente come un sistema di «vasi comunicanti», ed a questo sistema deve pure adattarsi ogni attività sociale, che ha come scopo quello di salvaguardare i diritti dei gruppi particolari.

Un sindacato in cui è chiara e nitida la suddivisione tra oppressi e oppressori? Che, in ragione di questa distinzione, non provvede alla sua sopravvivenza, ma difende piuttosto le ragioni dell’oppresso? Un corpo intermedio nel quale è stato per sempre debellato il potere egoistico che schiaccia, esclude, mortifica e rende schiavo? Un sindacato che svolge appieno la sua funzione di difesa del lavoro?

La difesa del lavoro avviene sul campo di battaglia, poi viene la piazza. Anche i martiri che oggi ricordiamo stavano manifestando, certo, ma a compimento di un impegno. Oggi, forse, abbiamo capovolto un po’ l’ordine delle cose. Affidiamo alla manifestazione di piazza le nostre battaglie, mentre abbandoniamo il campo della quotidianità, dove siamo chiamati ad esercitare precise responsabilità, a compiere scelte, a studiare il cambiamento per individuare gli strumenti adatti ad affrontarlo.

Una festa per difendere il lavoro chiama in causa tutti e non può mai conoscere crisi.

Può, anzi, deve semmai provocare una crisi in tutti, nell’accezione più bella del termine, per fare memoria, per cambiare rotta, per fare quadrato intorno ad un problema vitale e sociale.

 

 

 

 

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