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giovedì, Aprile 18, 2024

Licenziamenti individuali e collettivi: cosa cambia?

Il dibattito sull’occupazione e sui licenziamenti è all’ordine del giorno, non vi è dubbio. Sull’occupazione vengono forniti dati, anche altalenanti, dati che, a seconda del tipo di lettura che ne viene data, possono apparire positivi o negativi. Si parla delle motivazioni che legittimano o legittimerebbero i licenziamenti, delle cause di ricorso dei lavoratori, della vita stessa delle persone che si ritrovano da un giorno all’altro senza uno straccio di lavoro, a qualsiasi età, pronte e costrette a ricominciare anche in luoghi nuovi, lontani da una buona quotidianità costruita nel tempo. A volte sembrerebbe quasi che questi argomenti siano stati indagati sotto tutti i possibili punti di vista. Così non è.

Che i licenziamenti economici siano individuali o collettivi non fa alcuna differenza per la persona destinataria del provvedimento e, ovviamente, anche per la sua famiglia. Nessuna differenza nella vita di tutti i giorni, ma non nella battaglia per il proprio diritto al lavoro. Perchè?

Proviamo a ragionare attraverso due esempi e ad un semplice paragone tra di essi.

Ipotesi numero uno: alcune aziende, distinte e distanti, sparse su un territorio compreso tra la città X e la città Y, inviano per motivi economici lettere di licenziamento che colpiscono in tutto 100 lavoratori. Risultato: 100 disoccupati, 100 famiglie esposte ad un presente e ad un futuro incerti, meno ricchezza immessa sul mercato, ergo un territorio più povero e più fragile.

Ipotesi numero due: un’ unica azienda, ubicata sempre sul territorio compreso tra la città X e la città Y, provvede a licenziare, per gli stessi motivi, altrettanti 100 dipendenti, tutti ovviamente ad essa appartenenti. Risultato: 100 disoccupati, 100 famiglie esposte ad un presente e ad un futuro incerti, meno ricchezza immessa sul mercato, ergo un territorio più povero e più fragile.

Abbiamo detto che per la vita dei lavoratori, per i “protagonisti” della prima e della seconda ipotesi, non cambia nulla. A conti fatti neppure per il territorio, dal momento che in entrambe le ipotesi registriamo una maggiore povertà e fragilità. Eppure qualcosa cambia. Proviamo a ragionarci su attraverso due domande.

Prima domanda: un certo numero di licenziamenti (quindi di disoccupati), distribuiti su una determinata superficie ed eseguiti da aziende differenti, si presenta come dato meno pesante rispetto a quello espresso da un altrettanto numero di licenziamenti (e di altrettanti disoccupati) concentrati sulla stessa superficie ma avviati da un’unica azienda?

Seconda domanda: dati di licenziamento meno pesanti o più pesanti per chi? Per cosa? Da quali “fattori” è composto questo peso? O meglio, questo peso che carattere assume? Esclusivamente sociale o anche politico?

Allora, cambia qualcosa sul territorio oppure no? Probabilmente cambia la percezione della gravità del problema, viene registrato un peso differente in cui si annida uno scarto che può innescare meccanismi di intervento da parte di alcuni poteri, come quello politico, che potrebbero addirittura essere ingiustificati.

Il destinatario di un licenziamento economico individuale può ritrovarsi a combattere la sua battaglia da solo, con paura, con grande senso di smarrimento e di esclusione. I destinatari di un licenziamento economico collettivo, invece, molto spesso, si ritrovano ad avere come alleati nella loro battaglia, oltre ai sindacati, tanti partiti politici che sembrerebbero fare a gara per trovare soluzioni, per “salvare il territorio dalla povertà e dal declino”.

E dunque, cosa fa emergere questo ragionamento? Che forse non è giusto solidarizzare con chi rischia di perdere il lavoro? Che non è giusto sottoporre i problemi nei luoghi istituzionali preposti ( MISE) per dirimere questioni aziendali delicate e per individuare buone soluzioni? Niente affatto.

Va detto, però, che chiunque voglia solidarizzare con chi sta per perdere il lavoro o lo ha già perso, a chiunque stiano a cuore le sorti di un territorio non dovrebbe “interessare” se i lavoratori a rischio licenziamento siano rappresentati da isole sparse in più aziende o da una moltitudine presente in un’unica azienda. La questione non dovrebbe essere ridotta alla visibilità pubblica che una situazione piuttosto che un’altra, entrambe drammatiche, possono offrire. La questione dovrebbe essere sempre ricondotta alla vita delle persone e al loro sacrosanto diritto al lavoro.

Ribadiamo: i numeri sono gli stessi, le conseguenze sulla vita dei lavoratori sono le stesse, cambia la percezione della realtà, che diventa ancora più drammatica quando si delinea la totale chiusura di una attività imprenditoriale.

Quest’ultima ipotesi lascia intendere che il compito principale della politica, allora, dovrebbe essere quello di trovare adeguate soluzioni legislative per consentire alle aziende di stare sul mercato, non solo di costituirsi, come anche di impedire a queste di accedere all’ultilizzo di incentivi pubblici se non a determinate e ferree condizioni. Un impegno a monte, dunque, richiesto da tempo immemorabile ma non ancora portato definitivamente a termine.

Probabilmente il quesito ultimo di questa riflessione potrebbe essere il seguente: perchè mai la politica dovrebbe difendere con enfasi le richieste di lavoratori dipendenti che rischiano il licenziamento e rispondere, invece, con la lentezza tutta italiana, alle richieste di altrettanti cittadini che vogliono fare impresa attraverso procedure semplificate, per dare lavoro, offrire ricchezza, più inclusione e, dunque, più libertà e meno subdola dipendenza da qualsiasi potere, occulto o meno che sia?

 

 

 

 

 

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