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lunedì, Settembre 25, 2023

La fame di vita del disoccupato

C’è una domanda che il disoccupato si sente rivolgere spesso da conoscenti e non: “Che fai adesso? Stai a casa?” Sembrerà strano, ma la domanda non è per nulla innocua; anzi è di una violenza inimmaginabile, anche se è consentito sperare che la violenza non sia intenzionalmente provocata. Non importa se lo stato di disoccupazione sia attivo da una settimana, un mese, un anno. L’effetto è il medesimo.
Sarà per questo che Alberto Moravia, nei Nuovi racconti romani, 1959, scriveva che:
“La disoccupazione è una cosa per il disoccupato e un’altra per l’occupato. Per il disoccupato è come una malattia da cui deve guarire al più presto, altrimenti muore; per l’occupato è una malattia che gira e che deve stare attento a non prenderla se non vuole ammalarsi anche lui”.

Le parole racchiuse nelle domande summenzionate possono inchiodare all’angolo più di una lettera di licenziamento, possono “bollare”, in un nano secondo, uomini e donne, giovani e adulti, sotto il marchio del pietismo. Che vuol dire, infatti: stai a casa? E’ come se, perdendo il lavoro, un uomo o una donna dovessero improvvisamente cessare di vivere e di avere interessi, di coltivare sogni e progetti per costruire un nuovo futuro, sicuramente diverso da quello immaginato fino al momento del licenziamento, ma non per questo peggiore.

Vale la pena ricordare che il lavoro si può perdere a causa di un licenziamento ma anche perché è il lavoratore stesso a doversi dimettere per giusta causa. Di quest’ultima eventualità non si parla molto, eppure meriterebbero enorme attenzione tutte le cause che “costringono” una persona a dimettersi, oggi più che mai.

Il percorso che si prospetta alla fine di una esperienza lavorativa non è facile, non è comodo, ma può essere colmo di nuovi impegni, di maggiori sforzi per reinventarsi o per realizzarsi più pienamente. Proprio perché il percorso non è in discesa, il pietismo non aiuta in nessun modo chi vive l’esperienza del “ritrovarsi disoccupato”, non rappresenta per nulla la ricetta del buon umore e non suona per nulla come un incoraggiamento.

Spesso i disoccupati evitano di uscire, si ritirano gradatamente dalla vita sociale, a motivo di una sensazione di inadeguatezza, assolutamente ingiustificata, che provano nel vedersi rivolgere domande sulla loro vita professionale. Percepiscono dentro se stessi una fragilità crescente che provoca anche difficoltà nel confronto con l’altro. Si riscoprono più deboli di quanto abbiano mai pensato di esserlo e anche questa presa di coscienza può essere avvertita come una ulteriore sconfitta. Non tutti reagiscono allo stesso modo, certo, ma in una società civile la solidarietà esige che il più debole debba essere soccorso.

Nuovi percorsi dovrebbero essere messi in campo per supportare le persone che vivono l’esperienza della disoccupazione, soprattutto dal punto di vista psicologico e motivazionale. Nel 2015, a Milano, è stato lanciato un progetto in via sperimentale, lo Standupificio, ideato e realizzato dall’associazione Dentro un quadro. 

Nel sito dedicato al progetto viene spiegato che “la radice del termine è tratta dal verbo inglese “to stand up” che significa “alzarsi” e che intende rimandare alla capacità delle persone di rimettersi in piedi. Il ripartire da sé e dalle proprie risorse si ritiene, infatti, essere la precondizione necessaria per cercare di vincere forme inevitabili di scoraggiamento che spesso sconfinano in sintomatologie d’ansia e depressione invalidanti, quando non in sintomatologie da traumatizzazione vera e propria”.

Pensare a progetti come lo Standupificio non significa automaticamente definire il disoccupato una persona malata. Non è proprio questo il punto. Significa semmai il contrario, dal momento che le persone vengono accompagnate proprio per rialzarsi da un evento drammatico come può essere la perdita del lavoro. Inutile nasconderlo, il disagio da disoccupazione esiste.

Rialzarsi per ricominciare, per uscire da se stessi e perchè l’unico obiettivo da rincorrere non sia un sostegno per l’inclusione. In Italia è in gioco la vita di molte, troppe persone, che hanno tutto il diritto di realizzarsi professionalmente e soprattutto di affermare che la loro vita non è un gioco.

Nel Mezzogiorno, a che punto siamo?  Gli psicologi e gli psicoterapeuti che volessero aderire all’associazione “Dentro un quadro” possono farlo accedendo all’apposita sezione del sito. Sarebbe bello se anche al Sud potessero essere potenziati percorsi in tal senso, sarebbe un bell’esempio di solidarietà e di sussidiarietà, una scelta importante per cambiare verso e ritornare alla centralità della persona.

 

 

 

 

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