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giovedì, Aprile 25, 2024

La concorrenza controproducente dell’assistenzialismo

Il Reddito di cittadinanza nasce come misura di contrasto alla povertà. Una povertà, tutt’altro che sconfitta, stando a quanto certifica l’ISTAT in questi giorni. Seppur con percentuali diverse la povertà assoluta è un flagello che attraversa tutto lo Stivale: nel 2020, sono in condizione di povertà assoluta poco più di due milioni di famiglie (7,7% del totale da 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4% da 7,7%). Dopo il miglioramento del 2019, nell’anno della pandemia la povertà assoluta aumenta raggiungendo il livello più elevato dal 2005 (inizio delle serie storiche). Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da 11,4% del 2019).

Cos’è che genera povertà in un Paese industrializzato? L’assenza di lavoro o la difficoltà a mettere in contatto l’offerta con la domanda di lavoro? Più offerta e meno domanda o viceversa? Una domanda che non intercetta l’offerta o viceversa? La presenza di inattivi, di percettori di Reddito di cittadinanza che rifiutano un lavoro a contratto è innegabile. Cosa vorrà dire tutto questo?

E’ impossibile sbrogliare una matassa così complessa in poche e, soprattutto, semplici versi. Da qualche parte, tuttavia, dovremo pure ri-cominciare. Ri-cominciamo dalle premesse, dunque, focalizzando i due caratteri del lavoro.

Il lavoro è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte (Gen 3,19). Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura.

Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. (La questione del salario – Rerum Novarum, punto 34)

I tempi sono cambiati, ma alcuni presupposti rimangono immutati e immutabili. Al netto della citazione biblica è difficile non condividere il pensiero di Papa Leone XIII.

Oggi la questione del salario, il carattere della necessità del lavoro sono tornati al centro del dibattitto politico e pubblico. Motivo scatenante: la difficoltà da parte delle aziende, soprattutto quelle che lavorano stagionalmente, di ingaggiare personale. Pare che la difficoltà risieda nel reddito di cittadinanza, considerato troppo allettante, dato il suo ammontare. Allettante rispetto ai salari bassi che verrebbero proposti e che costituiscono in Italia un problema del quale si dibatte da tempo, tanto da aver ispirato pellicole cinematografiche come “Generazione mille euro” (2009). Insomma: se è vero che la mia condizione debba essere in eterno quella del povero, meglio povero, ma a riposo.

In pieno lockdown, il 4 aprile 2020, dedicai una riflessione ai working poor, coloro che lavorano (regolarmente) senza riuscire comunque ad essere al riparo dalla povertà.

Dove sta la verità? Proviamo a rimanere sul punto, senza trasformare un problema in una disputa contro qualcuno.

Per farlo non posso non scomodare un altro Pontefice, San Giovanni Paolo II, e la sua enciclica Laborem Excercens, al punto 17:

Datore di lavoro “indiretto” e “diretto”

Nel concetto di datore di lavoro indiretto entrano sia le persone sia le istituzioni di vario tipo, come anche i contratti collettivi di lavoro e i principi di comportamento, stabiliti da queste persone ed istituzioni, i quali determinano tutto il sistema socio-economico o da esso risultano. Il concetto di datore di lavoro indiretto si riferisce così a molti e vari elementi. La responsabilità del datore di lavoro indiretto è diversa da quella del datore di lavoro diretto – come indica la stessa parola: la responsabilità è meno diretta -, ma essa rimane una vera responsabilità: il datore di lavoro indiretto determina sostanzialmente l’uno o l’altro aspetto del rapporto di lavoro, e condiziona in tal modo il comportamento del datore di lavoro diretto, quando quest’ultimo determina concretamente il contratto ed i rapporti di lavoro.

Una costatazione del genere non ha come scopo quello di esimere quest’ultimo dalla responsabilità che gli è propria, ma solamente di richiamare l’attenzione su tutto l’intreccio di condizionamenti che influiscono sul suo comportamento. Quando si tratta di stabilire una politica del lavoro corretta dal punto di vista etico, bisogna tenere davanti agli occhi tutti questi condizionamenti. Ed essa è corretta, allorché sono pienamente rispettati gli oggettivi diritti dell’uomo del lavoro. Il concetto di datore di lavoro indiretto si può applicare ad ogni singola società e, prima di tutto, allo Stato.

Da tanto, troppo tempo, il datore di lavoro diretto chiede al datore di lavoro indiretto di intervenire perché venga migliorata nel concreto la sua proposta e capacità contrattuale. Lo fa chiedendo di diminuire il costo del lavoro, ad esempio, molto alto. La decontribuzione è una misura che va in questa direzione, ma è temporanea, non può essere sufficiente o risolutiva del problema. Non lo è neppure in termini culturali. Non finisce, qui, però. Il datore di lavoro indiretto non solo non attua una riforma del lavoro che stimoli l’intraprendenza economica e il lavoro, ma si pone addirittura come concorrente sleale del datore di lavoro diretto. Io sono profondamente convinta che la questione sia proprio in questi termini. Provo a spiegare il mio punto di vista.

Il reddito di cittadinanza, in sé una misura sacrosanta, è un intervento che lo Stato sta attuando in deficit, ossia, indebitandosi e condizionando le generazioni future. Il datore di lavoro diretto, invece, dispone di risorse limitate e, se in difficoltà, con e al netto degli effetti della pandemia, può certo ricorrere al debito, ma non con la stessa capacità che ha lo Stato. Se il datore di lavoro non paga il suo debito “qui ed ora”, poi, nessuno lo farà al suo posto in futuro. Questo pone il datore di lavoro diretto in una condizione di inferiorità contrattuale. Certo, il datore di lavoro diretto offre un lavoro, mentre il datore di lavoro indiretto offre un sussidio.

Il sussidio sostiene momentaneamente i consumi, nonostante l’alto tasso di disocuppazione e inattività, mentre una riforma del lavoro potrebbe favorire anche chi, per diverse ragioni, non intende più scegliere il lavoro subordinato. In quest’ultimo caso aumenterebbe di certo la concorrenza sul mercato, ma non sarebbe sleale, e forse consentirebbe di risolvere a monte il problema delle offerte di lavoro ingiuste, che è anzitutto culturale. ( leggi La legge e lo spirito del tempo)

Il ragiornamento, ovviamente, ha senso se contestualizziamo tutto dentro la cornice tracciata in apertura. Una cornice realistica e per questo drammatica. Una povertà di proposte, mezzi e di risorse alla quale si prova a dare risposta con una altrettanta povertà, seppure più comoda e di apparente e temporanea convenienza.

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. (articolo 4 della Costituzione Italiana)

Non rimane allora che porsi una domanda con molta franchezza: siamo mercenari o lavoratori? Sudditi o cittadini? Cosa vogliamo essere? Rispondere a questo interrogativo ci aiuterà a ri-trovare alcune delle premesse che abbiamo smarrito. Tra queste il senso del lavoro.

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