Sarebbe stato facile ricordare la testimonianza dell’imprenditore Libero Grassi nel giorno esatto dell’anniversario della sua uccisione per mano di Cosa Nostra, in un giorno in cui tutti o molti sono pronti a farlo, perchè si deve, perchè gli anniversari, almeno quelli, si rispettano, si onorano. Facile, addirittura scontato, ricordare nel clamore di una festa, il 29 agosto scorso, piuttosto che nel silenzio della quotidianità, l’esempio e la scelta coraggiosa di un lavoratore che ha dato il suo contributo (probabilmente troppo alto) per favorire un lavoro dignitoso e libero nel nostro Paese.
Quale insegnamento lascia il passaggio di Libero Grassi nella nostra società e nella nostra vita? Oggi che il lavoro libero è molto spesso invocato, preteso, come se quella libertà dovesse essere soprattutto qualcun altro da noi a conquistarla? Oggi che il lavoro libero è fin troppo inteso come “libero da gravami fiscali” più che liberato da insostenibili compromessi, da accordi al ribasso, da ricatti, da un male inflitto che pretende di esistere sol perchè nasce sulle ceneri di un male ricevuto?
Indignazione, denuncia, annuncio. Tre azioni e, prima di tutto, tre moti dell’anima, i segni visibili della testimonianza di Libero Grassi. Il 10 gennaio 1991 il Giornale di Sicilia pubblica la lettera che l’imprenditore scrive al suo estortore. Dovremmo essere capaci di leggere, non tanto le parole impresse in un documento per certi versi divenuto “storico”, ma quanto c’è stato e c’è ancora dietro quelle parole: paura, solitudine, come anche la ferma e precisa volontà di non soccombere al male, ad una cultura di morte.
Paura, solitudine e volontà, nonostante tutto, di non soccombere alla prepotenza. Un passaggio obbligato, una via stretta che, però, è liberante. Una via che alcuni lavoratori sono pronti e disponibili a percorrere (tante sono le testimonianze in Calabria e non solo), altri meno, senza per questo voler emettere nei confronti di quest’ultimi alcun giudizio di condanna.
Forse, chissà, più che di lavoro libero dovremmo parlare di lavoro liberante: dalla pigrizia prima che dalla povertà; dalla povertà morale prima che da quella materiale; dal lassismo prima che dalla inoccupazione. Dopottutto, un lavoro che non è liberante, che lavoro è?
Libero o liberante, in ogni caso è sempre la libertà ad essere chiamata in campo. E la libertà, a sua volta, chiama in causa sempre un costo da pagare. Non un costo da pagare in denaro, che serva ad arricchire impropriamente qualcun altro, ma in scelte chiare, di campo, precise, che possano arricchire in umanità chi le compie e chi riceve le conseguenze di quelle scelte.
Tutto questo nel silenzio di una quotidianità densa, profonda, e non nel clamore di una piazza addobbata a festa per ricordare un nome. I nomi sono importanti per ricordare i testimoni e la loro vita. E il più bel regalo, la riconoscenza più alta nei confronti di una vita spesa per il bene degli altri non è la titolazione di una strada, di una sala o di qualsiasi altro edificio che possa trovarsi nelle nostre città, bensì l’aver appreso una lezione importante e la volontà di metterla in pratica, perchè un sacrificio non possa dirsi vano e perchè la speranza di una società più giusta possa ancora essere l’orizzonte chiaro, se non di tutti, almeno di molti.