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venerdì, Aprile 19, 2024

I delibatori del disagio occupazionale

Il verbo delibare può essere utilizzato per indicare sia la degustazione di cose squisite sia, in senso figurato, l’esame superficiale di una questione o di un argomento. I delibatori del disagio occupazionale, pertanto, sono i perfetti attori della prima e della seconda scena. Perchè mai? Il disagio occupazionale è forse una “cosa squisita”? E’ forse un argomento che merita di essere trattato con superficialità?

Se facciamo riferimento a ciò che il disagio occupazionale rappresenta nel nostro Paese, non possiamo non convenire che esso sia certamente un male, un grande problema di cui ben conosciamo le conseguenze, come anche la problematicità della messa a punto di una soluzione che possa far intravedere una luce in fondo al tunnel. Se il riferimento, invece, va a coloro che rappresentano percentualmente quel disagio, ci accorgiamo di non essere di fronte ad un problema, semmai ad una risorsa. La base che esprime il disagio occupazionale, dunque, non è data da un terreno arido, incolto, non fruttuoso, bensì da talenti che non riescono, per una infinità di ragioni, a trovare una adeguata collocazione professionale.

Riepilogando: il disagio è di chi lo vive, non di chi vi si accosta. Coloro che vi si accostano, infatti, gli innumerevoli delibatori del disagio occupazionale, oltre a trattare il problema “disoccupazione” in maniera superficiale, gravitano intorno a questo mondo per assaggiare, gustare quanto di buono e di proficuo questo mondo può garantire in termini di potere e di assoggettamento dei più deboli. Esiste niente di più squisito per chi ama vivere alle spalle degli altri?

Questo pericolo lo aveva ben chiaro anche il vescovo don Tonino Bello, visto il messaggio, inequivocabile, indirizzato, ormai molti anni fa, ai giovani disoccupati:

“Guardatevi dall’insidia di chi, sfruttando gli istinti di sopravvivenza, cerca di tenervi separati nelle rivendicazioni, magari con contentini a macchie di leopardo. E tenetevi lontani dalla logica del “si salvi chi può”, o “dell’ognuno per sè e Dio per tutti”. La quale logica, anche se vi dà l’apparenza del successo immediato, si ritorcerà domani sui vostri figli. Non vendetevi a nessuno. Anche a costo di morire di fame. Resistete tenacemente alle lusinghe di chi pensa di manipolarvi il cervello comprandovi con quattro soldi. Attenzione, perché di questi osceni tentativi di compravendita morale ce ne sono in giro parecchi. Anzi, alle vostre spalle c’è tutta un’orchestrazione di sfruttatori del disagio che vogliono ridurvi a «zona denuclearizzata». Ad automi, cioè, espropriati di quell’intimo nucleo di libertà da cui si misura la grandezza irripetibile di ogni uomo”.

Quello che emerge dai dati INPS, e non solo, sull’utilizzo dei voucher, è una prova di questa tesi. Tra i maggiori utilizzatori di voucher ci sono organizzazioni sindacali, cooperative, imprese che hanno un fatturato di tutto rispetto. Tutto questo non si traduce in una delibazione del disagio occupazionale e di quella ricchezza non impiegata dalla quale deriva tale disagio? Una ricchezza non impiegata e che non sarà impiegata da tali delibatori se non per un personale tornaconto.

Giovani, meno giovani, perseguitati dalla parola d’ordine “reinventarsi”, “essere agili”, dallo spauracchio della povertà, sono sempre più succubi dalla logica del “tirare a campare”, perchè chissà “da cosa nasce cosa”, da un mini lavoretto si potrà approdare al lavoro tanto desiderato.

E’ necessario essere vigilanti, saper ponderare sempre se quanto si sta facendo, seppur provvisoriamente, sia funzionale al raggiungimento di un obiettivo professionale che bisogna necessariamente avere.

E’ necessario scongiurare il rischio che altri si approprino delle nostre energie, della nostra vita, mentre questa scorre, mentre ne abbiamo di fatto abbandonato il timone per fluttuare in un tempo ricco di troppi progetti e pertanto senza progetto, senza senso e senza molto altro ancora. Ci può essere attesa senza un obiettivo?

Luigi Pirandello, nell’opera “Sei personaggi in cerca d’autore“, scrive:

Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!

E’ necessario intendersi, invece. E’ necessario che il disagio occupazionale non venga recepito dall’altro, dal delibatore, come disagio esistenziale, altrimenti non c’è partita. Perchè questo accada, però, è necessario che la parte debole non faccia sfoggio della sua debolezza, bensì della sua dignità, sempre e comunque, della consapevolezza del proprio valore. Un valore che il delibatore ben conosce e di cui ha un infinito, ma inconfessabile, bisogno.

 

 

 

 

 

 

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