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giovedì, Marzo 28, 2024

Direzione di vita e lavoro nel post-pandemia

Lo spazio di questo intervento non mi consente di procedere in più approfondite analisi riguardanti questi ultimi anni che possiamo dividere in pre-pandemia e post-pandemia. Tra ciò che preesisteva in termini di relazioni tra persone nei vari contesti di vita (mondo del lavoro compreso), e come queste relazioni si sono modificate nel corso degli ultimi due anni e i cui effetti, a mio avviso, non sono ancora del tutto manifesti.

Ciò perché, se da una parte dal Covid-19, e le sue varianti, ne siamo in un certo modo usciti (o quantomeno abbiamo appreso come fronteggiarlo) dall’altra le ricadute psicologiche e comportamentali, con le immancabili ripercussioni sociali, sono ancora in divenire, aggravate da quella angosciante frustrazione di aver smarrito direzione, senso e significato all’agire quotidiano nella relazione con noi stessi e con gli altri, nei contesti di vita quotidiani.

E dato che “piove sempre sul bagnato”, si sono aggiunte le ulteriori aggravanti di un conflitto armato e, ancora più di recente nel nostro Paese, una imprudente crisi di governo (che getta ancora più ombre allo smarrimento di senso di cui sopra).

Le riflessioni che seguono, pertanto, sono anch’esse in divenire, non hanno la pretesa di essere esaustive quanto, piuttosto, a iniziare da queste, gettare le basi per un confronto – mi auguro – più ampio tra le pagine di Job Enquirer sullo sfondo del tema proposto: il legame, la relazione, tra ricerca di senso e il lavoro.

Procedo per punti.

  1. La pandemia, e quanto ancora oggi accade per le ricadute della stessa e di nuovi eventi aggiuntivi, ha fatto da detonatore al mal-essere diffuso prodotto dalla società privatistica e individualista che, in nome di una presunta libertà (“più consumo più sono persona libera”), tutti abbiamo contribuito – più o meno consapevolmente – a creare.
  2. Trattandosi di un’idea di libertà restrittiva, competitiva, di una coperta sempre troppo piccola per soddisfare il bisogno di ben-essere personale e interpersonale, il conflitto da latente è divenuto manifesto: “vita mia, morte tua”. Siamo divenuti più cattivi, dall’etimologia del termine, (ancora più) “captativi”, con lo “sguardo uncinante, non dritto” (citando Vito Mancuso), i cui effetti nelle relazioni sono di tipo manipolativo: quel mix di aggressività e passività finalizzato a possedere l’altro al pari di un oggetto e, come tale, di puro egoistico godimento – per il tempo breve di quel godimento – per poi passare ad altra relazione anch’essa dominata dal principio di utilità. Di asservimento al mio piacere, sempre temporale.
  3. In questo contesto la percezione diffusa è di sfiducia, di smarrimento, tra contrapposte tensioni di un bisogno di relazioni di senso, solide e solidali, e la paura di ritrovarsi invischiati in situazioni (a dir poco) discutibili che, prevalendo su quel primo bisogno, diventano prassi comune. Una condizione di fatto, ineludibile.

Sta accadendo, ma era in atto ancor prima del diffondersi della pandemia, quel fenomeno definito dal filosofo coreano Byung-Chul Han di “espulsione dell’Altro”: sono sempre meno le persone in relazione con l’alterità (con le fatiche che la stessa comporta) e sempre più gli individui chiusi nella propria gabbia narcisista, dopo aver espulso l’altro dal proprio orizzonte di vita.

  • Il mondo del lavoro non poteva non risentire di tutto ciò. Alla precarietà preesistente si sono sommate le ricadute devastanti di (quasi) due anni di fermo totale e alcune scelte politiche che hanno ulteriormente aggravato la condizioni di precarietà.

Il riferimento, per quest’ultimo aspetto, è al cosiddetto “reddito di cittadinanza”, valido nei suoi principi, disastroso nella sua applicazione. Purtroppo l’idea trasmessa è stata quella di poter ottenere aiuti statali senza maturare alcun impegno nei confronti della società. Ottenere “ricchezza”, una forma di compenso, sovvenzione, in cambio di nulla.

Il precariato è rimasto tale e contemporaneamente ha reso precarie diverse realtà lavorative incentivando la desolante – poiché illegale – cultura del “lavoro nero”. Il problema lavoro si è così ingigantito. Continua la competizione nella ricerca dello stesso ma con l’aggravante che i precari di ieri – e tra questi molti fruitori del reddito di cittadinanza – si prestano, con la compiacenza di “imprenditori” consenzienti, ad assunzioni fittizie, anche a basso costo, pur di non perdere la sovvenzione statale.

Giocoforza il talento di chi possiede reali competenze da spendere nei diversi ambiti lavorativi resta tagliato dal mercato del lavoro convalidando, a mio avviso, la falsa idea che non vale la pena spendersi in anni e anni di studio, e di specializzazioni, per ritrovarsi a trent’anni senza la stabilità di un’occupazione.

  • In un contesto siffatto i valori (di senso) della solidarietà e sussidiarietà – costitutivi di una virtuosa esperienza nel mondo del lavoro (valgono gli esempi di Adriano Olivetti, Brunello Cucinelli, Leonardo Del Vecchio) – saltano, perdono direzione e, pertanto, senso e significato. È quanto possibile osservare dentro e fuori tantissimi contesti lavorativi che, lungi dall’essere luoghi di benessere interpersonale e professionale, sono divenuti fonte di stress a causa della competizione interna che li caratterizza.

In termini di analisi mi fermo qui cercando ora di azzardare alcune indicazioni di metodo, dall’etimologia della parola, di processo, seppure per grandi linee.

Al lavoro, alla cultura del lavoro, si educa. È un processo che parte, senza sorpresa per alcuno, dalla famiglia e dalla scuola (gli enti manifestamente più in crisi nella nostra società).

È tra le mura domestiche che si apprende la cultura del lavoro come gratificazione derivante dal promuovere “bene comune”, “benessere sociale”, “partecipazione alla casa comune”. Ed è così anche per la scuola nella quale l’apprendimento di saperi non può essere finalizzato all’esasperazione della competitività.

È nell’accompagnamento educativo dei primi 12/13 anni di vita che diventa possibile porre le basi per l’assunzione – via via sempre più autonoma e responsabile – di una direzione di vita che assuma così senso e significato. In età adulta poi, magari trattandosi persone già inserite nel mondo del lavoro, l’educazione continua, ricorrendo ad attività di formazione permanente riguardanti l’approfondimento di competenze e, ancor di più, processi di cooperazione e collaborazione, nonché di apertura al territorio circostante attraverso iniziative in rete.

Formazione ed educazione: le due facce della stessa medaglia, che trovano riferimento anche in disposizioni di legge. Come ad esempio nelle norme generali sull’istruzione e sui cicli scolastici – n. 53 del 2003 – dove all’art. 2 si parla di “sistema educativo di istruzione e formazione” da definire seguendo alcuni principi (a. “è promosso l’apprendimento in tutto l’arco della vita e sono assicurate a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze (…) coerenti con le attitudini e le scelte personali, adeguate all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro (…); b. sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione, e lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale ed alla civiltà europea”); e la Legge n. 92 del 2012 (riguardante in modo prevalente il mondo del lavoro) nella quale all’art. 4, comma 51, recita: “(…) per apprendimento permanente si intende qualsiasi attività intrapresa dalle persone in modo formale, non formale e informale, nelle varie fasi della vita, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva personale, civile, sociale e occupazionale”.

Si tratta di un processo sistemico, vale a dire di relazioni di senso, intenzionalmente pianificate, tale da poter sollecitare famiglie, scuole, università, aziende, ad uscire dalla propria autoreferenzialità per attivare un circuito virtuoso di sostegno reciproco. Magari ricorrendo alle competenze e all’umanità di tanti professionisti, presenti anche nel territorio calabrese, che – nonostante tante resistenze, consapevolmente agendo controcorrente – si spendono con determinazione per promuovere ed agire il bene comune.

Un processo che fa della relazione con l’Altro un elemento ineliminabile poiché virtuoso ai fini del riconoscimento della propria e altrui identità, capace di incoraggiare legami di vicinanza, in quell’atteggiamento contrapposto all’espulsione dell’Altro che trasforma ogni contesto in ConTeSto.

Cesare Perrotta

Counselor Professionista Avanzato

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