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mercoledì, Aprile 24, 2024

Viaggio nel Rapporto SVIMEZ 2016: la parola al prof. Vittorio Daniele

Come anticipato nei giorni scorsi, prende il via, oggi, il percorso di approfondimento del Rapporto SVIMEZ 2016. Tanti sono i contenuti del Rapporto di cui continuare a parlare, anche dopo l’entusiamo, giustificabile o meno, dei giorni immediatamente successivi alla presentazione delle anticipazioni. In questo processo di conoscenza e di lettura di alcuni dei dati emersi dal Rapporto Svimez 2016, ci aiuterà il prof. Vittorio Daniele, docente di Politica Economica presso l’Università degli studi “Magna Grecia” di Catanzaro, che ringrazio pubblicamente per avermi concesso questa intervista.

Il Rapporto SVIMEZ certifica una ripresa per il Sud ma allo stesso tempo insiste sull’attuazione di politiche economiche lungimiranti, affinché i dati positivi raggiunti non siano semplicemente la conseguenza di congiunture favorevoli. E’ corretto affermare che l’ottimismo dei giorni scorsi sia solo parzialmente giustificabile visto che la Svimez si ritrova nuovamente ad elencare misure che non sono state adottate e che urgono?

Condivido la posizione della Svimez. L’andamento economico del Mezzogiorno nel 2015 è spiegato da dinamiche congiunturali, più che da cambiamenti strutturali. Le dinamiche positive  hanno riguardato l’agricoltura e il turismo, settori che tipicamente presentano andamenti variabili. Sull’occupazione ha anche influito la decontribuzione sulle nuove assunzioni. Sono, questi, segni di una svolta che porterà il Sud a recuperare il suo strutturale ritardo? Non credo. Non dimentichiamo che nel 2015 la crescita economica del Mezzogiorno è stata pari all’1{cbd9c1faeba5711866380b8c9dfc181d05577eef0adb5294792d39edd3158544} del Pil. Un risultato positivo, dopo anni di recessione. Ma si tratta di una crescita assai modesta, in un Paese che cresce poco. È bene ricordare che, dal 2008 al 2014, il Pil del Mezzogiorno è calato, complessivamente, di 13 punti percentuali; quello dell’Italia di 9 punti. Con ritmi di crescita pari o inferiori all’1 per cento ci vorrà ben più di un decennio per ritornare ai livelli precedenti la crisi.

Quali sono gli ostacoli principali, a Suo avviso, che impediscono “la cura” delle diverse patologie di cui soffre il Sud? Da anni sappiamo quali sono i problemi da affrontare, le analisi in merito abbondano, i tentativi per uscire dal guado scarseggiano.

Lo storico ritardo del Sud dipende, essenzialmente, dal fatto che, negli anni di più intensa industrializzazione (un periodo durato fino agli anni’70), il Sud è rimasto sostanzialmente ai margini di quel processo. L’industria è fondamentale per la crescita economica. Il suo scarso peso nella struttura produttiva meridionale spiega il divario rispetto al Centro-Nord. Recuperare il ritardo accumulato in passato non è possibile. È possibile, però, attuare degli interventi che consentano alle regioni meridionali di beneficiare di processi virtuosi di sviluppo. Colmare il ritardo infrastrutturale; potenziare le infrastrutture portuali; investire in settori in crescita, come quello energetico o nella filiera agroalimentare di qualità. Sono alcuni esempi di ciò che si può fare. È chiaro, però, che la crescita del Mezzogiorno dipende anche da quella del Paese nel suo complesso. Ridurre inutili vincoli normativi, semplificare il quadro normativo e burocratico, rendere più efficiente il sistema della giustizia, migliorare la qualità della formazione, investire in nuove tecnologie. Si tratta di interventi che non servono solo al Mezzogiorno, ma al Paese e che, certamente, avvantaggerebbero anche le regioni più deboli.

Secondo Svimez, tra le priorità da affrontare, vi è lo sviluppo dell’apparato industriale meridionale, ancora largamente sottodimensionato. Per affrontare tale priorità necessitano investimenti esterni all’area, tuttora frenati da una scarsa accessibilità dovuta alla posizione geografica, all’insufficienza dei mezzi trasporti, alla rarefazione del tessuto imprenditoriale e alla criminalità. E’ corretto continuare ad insistere sullo sviluppo dell’apparato industriale meridionale, quando probabilmente la vocazione delle regioni del Sud è orientata verso altri settori, come l’agricoltura?

Come già detto, l’industria ha un ruolo cruciale per lo sviluppo economico e l’occupazione. Non bisogna pensare però all’industria del passato. Il Mezzogiorno non può competere con i Paesi emergenti, con bassi salari e bassa tassazione, in cui oggi si localizzano gli investimenti esteri in molti comparti manifatturieri. Esiste un’industria legata ai territori, come quella che trasforma le produzioni agricole in beni alimentari; un’industria che utilizza e produce tecnologie informatiche, che è molto legata alle attività di servizi e richiede personale qualificato. L’agricoltura e il turismo possono rappresentare fattori di crescita per alcune aree e territori, ma non per tutto il Mezzogiorno. Certo, è necessario che i vincoli allo sviluppo, come la criminalità, l’inefficienza dei servizi pubblici, la carenza infrastrutturale vengano superati. È in quegli ambiti che il ruolo dello Stato e delle istituzioni locali deve essere più incisivo.

Per il rilancio di nuovi investimenti Svimez segnala, tra gli strumenti utili, le Zone economiche speciali (ZES), già attive in altri Paesi, come Cina, Polonia, dove si sono registrati dei dati importantissimi in termini di nuovi posti di lavoro e di occupazione. Nel Rapporto si evidenzia l’opportunità di predisporre una legge nazionale che ne consenta una implementazione in tempi brevi. Lei crede che questo strumento potrebbe funzionare anche in Italia?

In alcuni contesti, come nell’area portuale di Gioia Tauro, le ZES possono certo servire ad attrarre investimenti. Le difficoltà sono normative, in particolare quelle che derivano dal rispetto dei principi sulla concorrenza nel contesto dell’Unione europea. Le ZES sarebbero però molto utili, specie se accompagnate da misure che, oltre ad abbattere le imposte, semplifichino e rendano certi i tempi e le procedure per i nuovi investimenti produttivi.

L’accesso al credito rimane per molte imprese un vero nodo cruciale. La Calabria risulta essere la regione più povera d’Italia, ma allo stesso tempo la più martoriata per l’applicazione di tassi di interesse elevati, visto la sua appartenenza ad una zona cosiddetta a rischio. Perché chi abita al Sud, e vive onestamente, deve pagare uno scotto così elevato? Come può essere data l’opportunità di risalire se le zavorre aumentano anziché diminuire?

Oggi i tassi d’interesse sono molto bassi. Nel 2015, secondo i dati della Banca d’Italia, in Calabria il tasso d’interesse sui prestiti a medio-lungo termine alle imprese è stato, in media, del 3,9{cbd9c1faeba5711866380b8c9dfc181d05577eef0adb5294792d39edd3158544} a fronte del 2,8{cbd9c1faeba5711866380b8c9dfc181d05577eef0adb5294792d39edd3158544} del Centro-Nord. Una differenza di poco più di un punto percentuale. Nei prestiti a breve, la differenza è di 3,7 punti percentuali. Queste differenze sono dovute al maggior rischio dell’attività creditizia,  ma anche al fatto che, nella nostra regione, molto spesso le imprese non presentano bilanci adeguati. È certamente necessario che le banche facciano un’analisi attenta del merito creditizio di coloro che chiedono un prestito. È altrettanto necessario che i tassi riflettano il rischio, e che la valutazione delle imprese consideri non solo gli aspetti formali, ma anche la storia e le prospettive aziendali. È  vero che questi aspetti sono spesso trascurati dalle banche.  Ma, mi chiedo, è davvero qualche punto in più nei tassi d’interesse il vero vincolo all’attività imprenditoriale in Calabria? Considerata la situazione attuale, in cui il costo dell’indebitamento è ai minimi storici, credo che le principali ragioni siano altre.

To be continued….

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