Può il costo del lavoro essere raccontato e non solo analizzato? Dopo giorni e giorni di proiezioni statistiche, di segni positivi e negativi, quasi fossero entrambi spade pronte ad incrociarsi in un duello senza vinti e vincitori, è possibile riportare l’attenzione sulla vita reale? Osservare e respirare la realtà aiuta a cogliere aspetti nuovi più di quanto possa fare un numero, positivo o negativo che sia.
Talmente ossessionati dall’equazione “lavoro = costo” abbiamo dimenticato i caratteri fondamentali del lavoro dell’uomo: personale, in quanto la forza attiva è inerente alla persona; necessario, perché il frutto del lavoro è indispensabile all’uomo per la sua sussistenza. Fatta questa doverosa premessa, torniamo alla realtà, per ascoltare quanto essa ci consegna. Sono anni che le aziende in Italia sono in difficoltà, e le ragioni di queste difficoltà risiedono, per molti, nell’eccessivo costo del lavoro dipendente, tanto che uno dei cavalli di battaglia del Jobs Act è stato la decontribuzione, proprio per favorire nuove assunzioni o far emergere rapporti di lavoro già esistenti, anche se fluttuanti nel limbo del sommerso.
Asserire che il costo del lavoro dipendente non sia elevato equivale a dire una bugia. Allo stesso tempo, però, anche asserire che il costo del lavoro sia l’elemento meno flessibile rispetto alle esigenze delle aziende e la causa più ostativa per la loro crescita equivale a distorcere la realtà dei fatti, a relegare sempre più il lavoratore in una condizione di incertezza e di instabilità, oltre a non favorire l’imprenditore nel suo esodo verso la terra promessa. A sostegno di questa tesi vengono in aiuto due esempi che la realtà economica ci consegna: il primo riguarda il rapporto commerciale tra fornitore e acquirente; il secondo, invece, il rapporto tra datore di lavoro e il dipendente.
Uno dei fattori sui quali ha inciso la crisi è stato il credito commerciale, nello specifico, la modalità di pagamento accordata dal fornitore all’azienda acquirente. Nei tempi precedenti alla crisi, infatti, soprattutto per quelle relazioni commerciali consolidatesi nel tempo, l’azienda poteva acquistare e pagare la merce in una o più tranche, con scadenze generose, sia che si trattasse di materie prime o di prodotti destinati alla semplice distribuzione. Oggi non è più così, i rischi vengono considerati con più attenzione, anche con maggiore paura, tanto che i fornitori, in molti casi, chiedono che la merce venga pagata dall’azienda acquirente anticipatamente alla consegna o alla consegna stessa. Se l’azienda non paga la merce, la merce non viene consegnata e questo può provocare una condizione di stallo nella produzione o commercializzazione.
I rapporti a cui la crisi, invece, sembra non aver cambiato “i connotati”, sono proprio quelli tra datore di lavoro e dipendente. Le retribuzioni non corrisposte – e il riferimento non è ad una sola mensilità – non hanno mai costituito, e non costiuiscono, motivo per il dipendente per voltare le spalle al suo datore di lavoro, salvo che il protrarsi di gravi situazioni non richieda necessariamente l’intervento dei sindacati o addirittura della giustizia. Come vive il lavoratore non retribuito non fa notizia; anzi, “zitto e mosca” sembra essere la risposta a qualsiasi lecita domanda. In questo gioco al massacro, in questo clima di incertezza, instabilità e di rischi, molti giocano al rialzo. Perchè solo il lavoratore dipendente dovrebbe giocare al ribasso?
Certo, il costo del lavoro non è composto solo dalla voce “retribuzioni” e, in effetti, la tesi qui sostenuta ( senza alcuna pretesa di esaustività) non vuole mettere in discussione l’esosità del costo nel suo insieme, quanto provare a dimostrare quanto esso non sia il problema di fondo per la sopravvivenza delle aziende italiane. Pertanto, dopo avere messo in relazione i due esempi citati, dopo aver osservato quale dei due rapporti illustrati sia condizionato maggiormente dalla rigidità delle regole, anche in relazione alle conseguenze immediate della loro violazione, siamo ancora convinti che sia davvero il costo del lavoro ad essere l’elemento meno flessibile, che più ostacola la crescita delle nostre aziende? Nel secondo esempio il carattere personale del lavoro fa la differenza, anche se non deve venire meno il carattere necessario.
Che fine hanno fatto temi come la capacità imprenditoriale, la burocrazia, il costo del denaro, la lentezza della giustizia, la concorrenza sleale, le carenze infrastrutturali? Nessuno parla più dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti di aziende private, ma ricorda bene il dott. Giacomo Reali, Istituto Bruno Leoni, che “il debito commerciale dello Stato e degli enti territoriali verso le imprese private stimato dalla Banca d’Italia a fine 2012 ammontava a 91 miliardi di euro. Da allora ne sono stati pagati 38,6“.
La politica della decontribuzione può essere definita lungimirante? Continuare a “demonizzare” il costo del lavoro non produrrà molti frutti positivi. Il rischio maggiore è che il lavoratore stesso venga visto principalmente come un costo e non più come una risorsa, alla stregua di una merce. Tanti sono ancora i disoccupati, la povertà è in crescita, e la sensazione è che il Governo stia pompando soldi soprattutto per “mantenere” chi non lavora, piuttosto che per sostenere, con interventi più incisivi, chi vuole fare impresa o chi un’impresa l’ha già avviata e prova a non sprofondare, a garantire l’occupazione e, di conseguenza, la crescita del Paese.