Il termine underdog ha fatto il suo ingresso nel dibattito pubblico “grazie” all’attuale Presidente del Consiglio. Giorgia Meloni si è autodefinita una sfavorita che, però, tutto sommato, considerando il percorso compiuto, ce l’ha fatta, o meglio, ce la sta facendo a smentire un destino poco favorevole. A suo dire, ovviamente.
Mi sembra che oggi ci sia una gara ad autodefinirsi un underdog. Chissà perché, poi. C’è sempre qualcuno che quasi quasi ci tiene a sottolineare quanto sia maggiormente sfavorito rispetto agli altri, forse per attirare meglio l’attenzione su quanto sta operando.
Per intenderci: se una persona fa fatica a camminare dall’infanzia e oggi, da adulto, ce la fa a stare in piedi e compiere qualche passo, è evidente che questo risultato è da considerarsi grande, anzi eccezionale. Diversamente, se la stessa persona cammina speditamente da sempre non c’è alcun risultato da riconoscere e, men che meno, da rivendicare.
Il punto, però, è un altro.
Quale risultato otteniamo ad attirare compassione verso di noi? Non dovremmo forse essere capaci di chiedere e nutrire rispetto per l’ altro e per il ruolo che rivestiamo?
Il punto di partenza è importante quanto la meta che vogliamo raggiungere. Essere stati degli sfavoriti ci autorizza a impegnarci affinché gli altri non lo siano o lo siano il meno possibile. La vanagloria è inutile e dannosa.
La tentazione di dimenticare chi siamo stati può fare di noi dei becchini, undertaker, per rispolverare leggende del wrestling. Becchini impegnati a seppellire quanto di buono, di bello, di liberante c’è ancora da riconoscere e scoprire, purché la scena sia sempre nostra.