Nel giro di pochi giorni, di poche ore, abbiamo ricordato due figure di italiani, una donna e un uomo, che hanno messo la loro vita a servizio del Paese: Tina Anselmi e Giuseppe Di Vittorio. Quello che sta per andare in onda non è minimamente il tentativo di idolatrare nè l’una nè l’altro, bensì la messa a fuoco di un dono, ad entrambi appartenuto, che è timidamente visibile nelle attuali figure istituzionali: l’essere per servire, un aspetto importante, poco discusso, della meritocrazia. Un essere, quindi, che non fa riferimento tanto ad un curriculum scolastico, quanto ad una esperienza di vita che ha generato il servizio di una determinata causa.
Tina Anselmi ha conosciuto il male prodotto dal Fascismo, ha sempre portato con sè l’immagine dei 31 prigionieri impiccati che fu costretta a guardare senza filtri insieme alle sue compagne di classe, alcune delle quali, in seguito, furono anche capaci, come lei stessa ha più volte ricordato, di trovare comunque una giustificazione a quell’orrore imposto come monito a chiunque volesse mettersi o sottrarsi al regime. Ha sperimentato la paura di un sistema che cercava di imporre la sua forza proprio attraverso la paura, ma ha trovato il coraggio di fare la sua parte all’interno della Resistenza.
Nel tempo, quella esperienza, sempre nutrita dal ricordo della paura di perdere la libertà, è stata messa al servizio del Paese, ricoprendo anche posti scomodi in cui il coraggio conosciuto da bambina è emerso sempre più forte per dire no, ancora una volta, a chi, seppur in una Italia ormai repubblicana e democratica, avrebbe voluto condizionarne la storia attraverso poteri occulti.
Giuseppe Di Vittorio, figlio di braccianti, di umili origini, coraggioso, ha conosciuto sulla sua pelle il dolore dello sfruttamento, della povertà, e da questa esperienza ha preso a piene mani la forza di combattere per i diritti dei lavoratori.
Entrambe le esperienze ci consegnano delle persone che sono state e sono importanti per la nostra storia non per i meriti raggiunti in un ateneo, ma per i meriti acquisiti sul campo di battaglia. Essi hanno incarnato le loro battaglie, sono stati le loro battaglie. E d’altronde, chi non ha conosciuto la povertà, può forse ricordare il morso della fame e capire come contrastarla perchè nessun altro possa sperimentarla? Chi ha sperimentato la paura di perdere la libertà può mai lasciare che questo dono vada sciupato? Chi non ha conosciuto un sopruso sul lavoro, può forse comprendere il dolore altrui e impegnarsi per difendere quelle conquiste che, come ricordava Tina Anselmi, non sono mai definitive? Conquiste non di un potere mondano ma di rispetto e di dignità.
Pensiamo un po’ se i nostri politici, o più genericamente, gli uomini delle istituzioni, rivestissero i loro incarichi soprattutto per meriti acquisiti sul campo! Probabilmente non ci sarebbero cambi di casacca perchè l’unica divisa a disposizione sarebbe quella che la vita li ha portati ad indossare. E quella è la nostra seconda pelle, non si può levare.
Sarebbe bello se, quando si parla di meritocrazia, si potessero mettere in evidenza soprattutto questi aspetti.
Tina Anselmi e Giuseppe Di Vittorio avrebbero potuto essere qualcosa di diverso da quello che sono stati? Avrebbero potuto svolgere un altro lavoro, estraneo alla loro vocazione? Certo, avrebbero senz’altro potuto rivestire altri incarichi. Resta comunque una domanda: avrebbero reso lo stesso risultato?
Quando parliamo di lavoro, di occupazione, non possiamo non tenere conto della vocazione di ogni persona. Una vocazione che ognuno deve avere anzitutto la possibilità di conoscere, per darle spazio, per farla crescere e per crescere con essa.