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venerdì, Aprile 19, 2024

2018: per il lavoro una soluzione al di là del muro

Tra le tante sfide presenti nel nuovo anno che si apre davanti a noi ce n’è una in particolare da accogliere: imparare a sentire nella nostra carne le ferite inferte all’uomo dall’ingiustizia sociale, per difenderlo e aiutarlo a riconquistare il suo posto nella società. Come possiamo, infatti, offrire solidarietà senza aver sperimentato prima la compassione? Queste parole sono tratte dal post scritto lo scorso anno per salutare il 2017 (leggi Anno 2017: liberi e forti per una nuova cultura del lavoro). Oggi ci ritroviamo a dare il benvenuto al 2018 e potremmo salutarlo con lo stesso messaggio. Tuttavia mancherebbe qualcosa. Cosa?

Il posto nella società, che ognuno di noi deve trovare o riconquistare, infatti, non deve essere interpretato in maniera assolutamente egoistica. Il posto che occupiamo si riferisce al nostro esserci, al nostro abitare, al grado di partecipazione di cui siamo capaci, con tutto quello che il termine partecipazione può significare.

“La partecipazione si esprime, essenzialmente, in una serie di attività mediante le quali il cittadino, come singolo o in associazione con altri, direttamente o a mezzo di propri rappresentanti, contribuisce alla vita culturale, economica, sociale e politica della comunità civile cui appartiene. La partecipazione è un dovere da esercitare consapevolmente da parte di tutti, in modo responsabile e in vista del bene comune. Essa non può essere delimitata o ristretta a qualche contenuto particolare della vita sociale, data la sua importanza per la crescita, innanzi tutto umana, in ambiti quali il mondo del lavoro e le attività economiche nelle loro dinamiche interne, l’informazione e la cultura e, in massimo grado, la vita sociale e politica fino ai livelli più alti, quali sono quelli da cui dipende la collaborazione di tutti i popoli per l’edificazione di una comunità internazionale solidale”. (Compendio DSC)

Una partecipazione consapevole, responsabile e in vista del bene comune è assolutamente contraria ad una cultura individualista. Quest’ultima ha al centro l’interesse personale, genera una società fatta di isole distanti e delimitate da muri elevatissimi che rendono impossibile la comunicazione. Quelle isole siamo soprattutto noi.

Dove non c’è comunicazione non c’è dialogo. Dove manca il dialogo non è possibile mettere a punto soluzioni condivise. Inutile negarlo. La cultura individualista sta influenzando anche il mondo del lavoro, alle soglie del 2018. Le pur esistenti situazioni di ingiustizia sociale non impediscono di osservare come in molti casi la parte cosiddetta debole lotti per migliorare la sua condizione in maniera assolutamente individualista. Non c’è o stenta ad esserci una visione di insieme e una visione a lungo termine di crescita e di sviluppo. E siamo nel 2018.

Per intenderci: l’ingiustizia sociale genera disuguaglianze e dovremmo avere il coraggio di ammettere che chi rimane vittima di un meccanismo ingiusto, non sempre opera per sanare l’ingiustizia subita, o lo stesso meccanismo, in modo che altri in futuro non abbiano a trovarsi nella medesima situazione. Provvede esclusivamente alla sua condizione, al problema nella sua imminenza.  In questo contesto cresce la rabbia, il rancore, il malcontento, l’ingiustizia urlata ma non denunciata realmente. A conti fatti quale soluzione potrà mai essere escogitata perchè nel mondo del lavoro, ma non solo, possano essere abbattuti i muri dell’individualismo, che impediscono di avere quella visione condivisa di crescita e di sviluppo di cui ha tanto bisogno il nostro Paese?

Torniamo, a questo punto, a quel posto che ognuno di noi occupa nella società e soprattutto al modo in cui lo occupa. Tutti noi possiamo essere operatori di ingiustizia, quando adottiamo un esasperato comportamento individualista, quando compiamo scelte sbagliate, seppur motivate, a nostro dire, da buone intenzioni. Non possiamo chiedere all’altro, chiunque esso sia, di cambiare, se noi in primis non siamo disposti a farlo.

Magari, anzichè affermare con impeto che una riforma del lavoro non è una buona riforma, potremmo approfondire meglio il suo contenuto. Piuttosto che definire gli imprenditori come spregiudicati egoisti, potremmo pensare al perchè non abbiamo scelto anche noi di fare impresa, preferendo un lavoro da subordinati. Troppi rischi? Troppe difficoltà? Troppe incognite?

Dobbiamo sforzarci di guardare oltre lo steccato, oltre il muro, dobbiamo spingerci oltre noi stessi, i nostri personali convincimenti e aprirci alla realtà, a quel realismo probabilmente scomodo con il quale non possiamo comunque rinunciare a misurarci e che può liberarci da future possibili strumentalizzazioni.

Buon 2018, auguri!

 

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