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Crescita, “nuova” emigrazione e masterplan per il Mezzogiorno nel Rapporto SVIMEZ 2016

Continua il viaggio nel Rapporto SVIMEZ 2016, insieme al prof. Vittorio Daniele (docente di Politica Economica, Università degli studi “Magna Grecia”- Catanzaro), sui binari della crescita, della “nuova” emigrazione, del masterplan per il Mezzogiorno.

La crescita del 2015 si è registrata principalmente nella parte centrale dell’anno, nell’ultimo trimestre si è verificato un affievolimento dell’andamento positivo, a motivo della diminuzione  delle misure di decontribuzione fiscale sulle nuove assunzioni standard del 2016. La Legge di Stabilità per il 2016 ha previsto un rafforzamento nelle regioni meridionali, subordinato ad una verifica di disponibilità delle risorse da concordare anche in sede europea. Anche Lei, come Svimez, auspica l’esito positivo di questo iter?

Senza dubbio, le decontribuzioni sul lavoro sono efficaci. Il rischio che si corre è che, una volta cessate queste misure, gli effetti positivi vengano meno. Si tratta di misure che non possono, per ovvie ragioni, essere permanenti.

SVIMEZ certifica una “nuova” emigrazione, tanto che sono 1.627 i meridionali che dal 2002 al 2014 sono emigrati dal Sud verso il Centro-Nord. Su questo dato, composto da una larga percentuale di giovani, non hanno giovato le politiche nazionali di finanziamento dell’educazione terziaria che hanno finito per penalizzare pesantemente le Università meridionali. Come attuare politiche di crescita per il Sud se, a fronte di queste misure, la vera ricchezza composta dal capitale umano viene spinta a cercare altrove i luoghi della formazione? Inoltre, nella dinamica demografica si sta configurando, anche per altri fattori, un dualismo tra Nord e Sud ancora più difficile da affrontare.

L’Italia è un Paese che invecchia, con tassi di natalità tra i più bassi al mondo. A livello mondiale, l’Italia è, dopo il Giappone, il Paese con maggiore quota di anziani rispetto alla popolazione in età da lavoro. Per questi aspetti, il Mezzogiorno mostra le stesse dinamiche del Centro-Nord, se non fosse che l’emigrazione ne accentua l’impatto in termini demografici. È vero, le politiche nazionali, in particolare nell’ultimo decennio, stanno fortemente penalizzando le Università del Sud. Il rischio concreto è che si crei un sistema duale, in cui il Mezzogiorno diviene sempre più periferico. La riduzione dei finanziamenti e il calo degli immatricolati, di fatto, porteranno allo smantellamento di parte del sistema della formazione universitaria meridionale. A pagarne le conseguenze saranno, in particolare, le famiglie e gli studenti con minori risorse economiche. L’emigrazione è una scelta talvolta voluta, spesso obbligata. I giovani partono alla ricerca di opportunità professionali che mancano al Sud e, più in generale, in Italia. Non direi che sia necessariamente un male che un giovane emigri; è un fatto che diverrà sempre più normale in un mondo globalizzato e interconnesso. Non si può certo chiedere ai nostri laureati di rimanere se non si è in grado di offrire loro opportunità concrete e gratificazioni professionali ed economiche. Possiamo chiedere ai nostri giovani di restare al Sud offrendo lavori sottopagati e occupazioni nettamente inferiori alle loro qualificazioni?

Una positiva discontinuità rispetto al declino degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, potrebbe essere costituita dal cosiddetto masterplan,  che avrebbe già dovuto portare alla stipula di 16 Patti con le Regioni meridionali e sette città metropolitane del Sud. In questa tipologia di accordi, segnala Svimez, va registrata una innovazione nel metodo, vista la una scelta di approccio bilaterale Governo – Regioni e Governo- Città metropolitane. Tale approccio da un lato fa perdere di vista la strategia complessiva per la macroarea e dall’altro fa emergere le priorità di sviluppo del territorio. Questa politica, ossia un interesse generale, quello della macroarea, “sacrificato” a fronte di un interesse particolare, quello del territorio, sposa quella lungimiranza tanto auspicata?

I cosiddetti Patti con le regioni del Sud contengono, in realtà, risorse che erano già state precedentemente stanziate. Insomma, una questione d’immagine più che di sostanza. Il dibattito su macroaree e territori mi sembra, tutto sommato, meramente nominalistico. Alcuni interventi, come quelli infrastrutturali, possono riguardare macroaeree; altri hanno interesse locale. Più in generale, non credo che lo sviluppo economico meridionale sia solo una questione di risorse finanziarie. Queste, naturalmente, servono. Ma non bastano a creare sviluppo. La creazione di ricchezza e di occupazione dipende dagli investimenti privati, cioè passa attraverso logiche di mercato. Il settore pubblico deve, ovviamente, creare un contesto favorevole  agli investimenti. Ma, come è noto, la programmazione economica non è una condizione sufficiente perché le imprese investano.

Parliamo sempre di sviluppo, ma dal suo punto di vista, è lo sviluppo che cerchiamo o il puro profitto?

È la ricerca del profitto ad orientare il mercato. Sarebbe utopistico pensare a un mondo in cui il profitto non influenzi le decisioni delle imprese e non ne costituisca l’obiettivo, o almeno uno degli obiettivi. È fondamentale, però, che la ricerca del profitto non contrasti con i valori sociali ed etici, che si coniughi con il rispetto dell’uomo e dell’ambiente, che tenga in conto i diritti delle generazioni attuali e di quelle future. Così, purtroppo, non è. In particolare nelle zone più povere del pianeta, l’attività economica si accompagna troppo spesso con lo sfruttamento dell’uomo e ha un impatto devastante sulla natura. Il contrasto tra la ricchezza dei paesi ricchi e la miseria di quelli poveri è stridente. L’inquinamento e l’effetto serra rappresentano una seria e concreta minaccia per il benessere delle prossime generazioni; la deforestazione e l’estinzione di centinaia di specie animali e vegetali impoveriscono il pianeta. Quale mondo lasciamo ai nostri figli? Sono temi al centro di quella straordinaria riflessione che è l’enciclica di Papa Francesco Laudato si’. Mi lasci concludere, però, citando un grande economista, J. Maynard Keynes. Nel 1931, pensando che i problemi economici dell’umanità si sarebbero sostanzialmente risolti entro pochi decenni, scriveva: “Nel momento in cui l’accumulazione di ricchezza cesserà di avere l’importanza sociale che le attribuiamo oggi, i nostri codici morali non saranno più gli stessi.” E ancora: “A questo punto, penso che siamo liberi di recuperare alcuni principi religiosi e valori più solidi, e tornare a sostenere che l’avarizia è un vizio, l’usura un comportamento reprensibile, e l’avidità del denaro ripugna; che chi non pensa al futuro cammina più spedito sul sentiero della virtù e della saggezza. Dobbiamo tornare a porre i fini avanti ai mezzi, ed anteporre il buono all’utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l’ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo, i gigli del campo che non lavorano e non filano”. Ecco, mi sembra un buon pensiero per concludere. E un augurio, sperando che il tempo immaginato da Keynes arrivi presto.

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