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sabato, Aprile 20, 2024

Legalità: se la carta non canta più

Dice bene Raffaele Cantone: “Non è pensabile fare sviluppo senza legalità”. Il punto è che si continua a parlare di legalità dimenticando che la nostra società ha messo in “stand by” la capacità di giudicare rettamente le proprie azioni, il buonsenso. “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune, scrive Manzoni.

Il senso comune che, oggi, riconosce nel corrotto, in chi vìola la legge, un semplice furbetto, nulla di più. Termini come Nazione, comunità, stimolano sempre meno un senso di appartenenza e di apertura alla solidarietà che «comporta che gli uomini del nostro tempo coltivino maggiormente la consapevolezza del debito che hanno nei confronti della società entro la quale sono inseriti. Un debito che va onorato nelle varie manifestazioni dell’agire sociale, così che il cammino degli uomini non si interrompa, ma resti aperto alle generazioni presenti e a quelle future, chiamate insieme, le une e le altre, a condividere, nella solidarietà, lo stesso dono» (DSC).

Nel nostro Paese non mancano certo le leggi, non mancano i provvedimenti contro chi le leggi le vìola (vedi anche la legge contro il caporalato da poco approvata ) soprattutto in materia di lavoro. Tuttavia l’illegalità continua a crescere e con essa la corruzione. Due zavorre che impediscono di fatto lo sviluppo e che rallentano, se non impediscono, la crescita.

Per comprendere correttamente la gravità del problema che affrontiamo può venire in aiuto una testimonianza raccolta qualche tempo fa, un’esperienza maturata non in luoghi poco raccomandabili dove l’illegalità in qualche modo è la “regola” più rispettata, ma in contesti che, senza remore, definiremmo “sani”.

Questa la storia.

Un datore di lavoro emette una busta paga di 1.200,00 euro, il dipendente firma il documento, ritira l’assegno di pari importo e si dirige in banca a versare la somma. Fin qui, ai fini della regolarità delle procedure previste, non si riscontrano effrazioni o illeciti. Tutto torna, carta canta, diremmo noi.

Eppure, niente torna e la carta non canta, perchè la storia ha un finale tutt’altro che scontato. Il dipendente, infatti, torna in ufficio e corrisponde al suo datore di lavoro parte della somma riscossa, parte dei suoi soldi. La legge nella sua forma è stata rispettata, nella sostanza assolutamente no.

Questo accadeva quando il tetto per l’uso del denaro contante era di 999,99 euro. Adesso che con la Legge di Stabilità 2016 la soglia al pagamento in contanti per i dipendenti del settore privato è stata fissata a 3.000 euro, senza obbligo di tracciabilità, possiamo solo immaginare le storie tristi che si stanno sommando l’una accanto all’altra, dal Nord al Sud d’Italia.

Il fatto è che di storie come quella appena raccontata ce ne sono molte e molte di queste sono accadute, soprattutto nella Locride, ben prima del 2008, prima che si inziasse a parlare di crisi.

Il lavoro sottopagato, il lavoro in nero, le buste paga non corrisposte per intero, sono sistemi o metodi che abbiamo forse inaugurato con la crisi o che la crisi in atto ha prodotto?

Quanto gli sgravi fiscali (di cui si continua a sventolar bandiera) o le agevolazioni concesse sui contributi a favore dell’assunzione di dipendenti sono sempre stati utilizzati secondo quanto previsto dalla legge? Le agevolazioni concesse dallo Stato al datore di lavoro come si sono tradotte nel rapporto di questi con i suoi dipendenti?

Per un imprenditore ha importanza capire il motivo per cui i suoi dipendenti rimangono a lavorare nella sua azienda? Rimanere a lavorare in una determinata azienda perché si è motivati da un determinato progetto o perché non si ha un altro posto dove andare non è proprio la stessa cosa, la differenza tra le due opzioni è abissale. Questa differenza, seppur abissale, è rilevante agli occhi dell’imprenditore? Interpella il lavoratore stesso?

L’Italia è come un corpo umano ricoperto da piaghe che vanno assolutamente curate. Il perché e quando si siano formate queste piaghe merita un capitolo a parte, anche se possiamo tranquillamente anticipare che una delle cause che le ha provocate è stato proprio l’immobilismo imposto a sua volta dall’illegalità e dalla corruzione.

Il punto che qui interessa, comunque, è che quelle piaghe non possono essere curate con medicazioni e bendaggi esterni ma con un potente antibiotico che agisca dall’interno. Tradotto: il rimedio non consiste nella proliferazione delle leggi ma in una efficace educazione alla legalità e alla giustizia. Raffaele Cantone ha affermato che senza legalità siamo in presenza di un finto sviluppo, “quello che lascia le cattedrali nel deserto, che fa sì che i lavori non finiscano mai e che porta più danni che vantaggi”(ANSA).

Il riferimento del Presidente dell’Autorità Nazionale anticorruzione va alle grandi opere ma lo stesso finto sviluppo si ha ovunque regni il caos e il fai da te. Nelle piccole e medie imprese può accadere che la prima violazione a verificarsi sia quella che riguarda una regola base, la giusta retribuzione del dipendente, diritto riconosciuto e sancito dall’articolo 36 della nostra Costituzione. Quale sviluppo può esserci in questi contesti?

Per uscire dall’immobilismo che impongono illegalità e corruzione occorre il coraggio della denuncia, occorre comprendere il senso di quella solidarietà sopra descritta che aiuta a vedere nella legge un aiuto alla convivenza, un argine al disordine e al caos. La carta canta la versione di chi spesso vuole nascondere la verità illudendosi pure di fare del bene alla società, perchè, tutto sommato, offre un lavoro che noi, tutto sommato, dovremmo accettare.

I conti delle aziende possono apparire in ordine ma questo non vuol dire che la realtà corrisponda a quanto scritto nelle carte.

Questa carta non canta affatto. Il suo canto non è libero.

 

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