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giovedì, Aprile 18, 2024

La consapevolezza di essere risorsa umana

Il termine Risorse Umane indica ufficialmente l’insieme delle persone che, con il loro apporto di competenze e professionalità, concorrono al processo produttivo dell’azienda nella quale operano. L’Ufficio Risorse Umane occupa così un ruolo sempre più cruciale, alla luce dei cambiamenti in atto, non solo tecnologici.

Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci, però. La riflessione che segue ha al suo centro la consapevolezza intesa come coscienza che l’uomo ha di sé stesso quando e mentre opera. Una consapevolezza che nasce da un processo di crescita interiore e non da una attribuzione o funzione utilitaristica. Ecco il perché del tentativo di offrire, tramite la voce del Magistero sociale della Chiesa, una occasione per rivedersi al centro del lavoro, di un processo che non è solo produttivo, ma anche creativo.

La pandemia in corso ci sta costringendo a ritornare all’essenziale, all’originale significato delle cose. Sentiamo, infatti, parlare di riforma del lavoro, ma è difficile riformare qualcosa di cui, probabilmente, abbiamo smarrito il senso.

Procediamo con ordine.

Il lavoro umano ha una duplice dimensione: oggettiva e soggettiva. Di questa duplice dimensione scrive San Giovanni Paolo II nell’enciclica Laborem Exercens, a novant’anni dalla Rerum Novarum di Leone XIII.

Il lavoro in senso oggettivo è “l’insieme di attività, risorse, strumenti e tecniche di cui l’uomo si serve per produrre. Costituisce l’aspetto contingente dell’attività dell’uomo, che varia incessantemente nelle sue modalità con il mutare delle condizioni tecniche, culturali, sociali e politiche”.

Il lavoro in senso soggettivo, invece, è “l’agire dell’uomo in quanto essere dinamico, capace di compiere varie azioni che appartengono al processo del lavoro e che corrispondono alla sua vocazione personale. In senso soggettivo il lavoro si configura come la sua dimensione stabile, perché non dipende da quel che l’uomo realizza concretamente né dal genere di attività che esercita, ma solo ed esclusivamente dalla sua dignità di essere personale.

Nella dimensione oggettiva del lavoro troviamo la dimensione variabile; nella dimensione soggettiva la dimensione stabile. Non è una differenza trascurabile, poiché ci aiuta a comprendere qual è il fondamento ultimo del valore e della dignità del lavoro.

Con il lavoro l’uomo trasforma la realtà e realizza sé stesso. Grazie a questo assunto possiamo comprendere bene e meglio la dimensione sociale del lavoro e la virtù della laboriosità. Soprattutto perché la laboriosità sia una virtù. Le crisi degli ultimi tempi, i problemi acuitisi con la pandemia hanno ridotto, anche di molto, l’orizzonte del lavoro.

Il lavoro oggi è concepito soprattutto come un salvagente per non affogare nel mare della povertà. Lo testimonia il numero crescente di persone che accettano di svolgere lavori che con le loro qualifiche professionali non hanno nulla a che fare o condizioni contrattuali che definire ingiuste è un eufemismo. Molte di queste, infatti, rasentano la schiavitù.

Il punto è che questa corsa alla sopravvivenza si sta trasformando nella ricerca di denaro e non di lavoro. Anche i sussidi vanno bene, purché io possa sopravvivere.

Come si è giunti a questo stato di cose? Cos’è che si è logorato rispetto alla dimensione personale e sociale del lavoro, alla dimensione soggettiva e oggettiva? Se prendiamo in mano i documenti del Magistero Sociale della Chiesa possiamo anzitutto accorgerci di come nel tempo alcune dinamiche nei rapporti di lavoro, nonostante un continuo aggiornamento della legislazione in difesa dei diritti del lavoratore (conquiste apparenti?), siano rimaste costanti. Nei testi è facile riscontrare condizioni che potremmo definire contemporanee. È come se avessimo compiuto un lungo viaggio in treno e che oggi quello stesso treno ci stesse riconducendo alla stazione di partenza, ad un’era quasi archeozoica. Non avevamo certo previsto questo. Proviamo a verificare.

Leone XIII, Rerum Novarum, anno 1891:

Ha dunque il lavoro dell’uomo due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura.

Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente sí riducono al salario del proprio lavoro.

L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta.

Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio.

Pio XI, nella Quadragesimo Anno, quarant’anni dopo la Rerum Novarum, compie un ulteriore passo:

Nello stabilire la quantità della mercede si deve tener conto anche dello stato dell’azienda e dell’imprenditore di essa; perché è ingiusto chiedere esagerati salari, quando l’azienda non li può sopportare senza la rovina propria e la conseguente calamità degli operai. È però vero che se il minor guadagno che essa fa è dovuto a indolenza, a inesattezza e a noncuranza del progresso tecnico ed economico, questa non sarebbe da stimarsi giusta causa per diminuire la mercede agli operai.

Che se l’azienda medesima non ha tante entrate che bastino per dare un equo salario agli operai, o perché è oppressa da ingiusti gravami, o perché è costretta a vendere i suoi prodotti ad un prezzo minore del giusto, coloro che così la opprimono si fanno rei di grave colpa; perché costoro privano della giusta mercede gli operai; i quali, spinti dalla necessità, sono costretti a contentarsi di un salario inferiore al giusto.

Tutti adunque, e operai e padroni, in unione di forza e di mente, si adoperino a vincere tutti gli ostacoli e le difficoltà, e siano aiutati in quest’opera tanto salutare dalla sapiente provvidenza dei pubblici poteri. Che se poi il caso fosse arrivato all’estremo, allora dovrà deliberarsi se l’azienda possa proseguire nella sua impresa, o se sia da provvedere in altro modo agli operai. Nel qual punto, che è certo gravissimo, bisogna che si stringa ed operi efficacemente una certa colleganza e concordia cristiana tra padroni e operai.

Papa Giovanni XXIII, nella lettera enciclica Mater et Magistra (1961), descrive bene il pericolo del distanziamento tra categorie di lavoratori e non solo:

Sono da considerarsi esigenze del bene comune su piano nazionale: dare occupazione al maggior numero di lavoratori; evitare che si costituiscano categorie privilegiate, anche tra i lavoratori; mantenere una equa proporzione fra salari e prezzi e rendere accessibili beni e servizi al maggior numero di cittadini; eliminare o contenere gli squilibri tra i settori dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi; realizzare l’equilibrio tra espansione economica e sviluppo dei servizi pubblici essenziali; adeguare, nei limiti del possibile, le strutture produttive ai progressi delle scienze e delle tecniche; contemperare i miglioramenti nel tenore di vita della generazione presente con l’obiettivo di preparare un avvenire migliore alle generazioni future.

Paolo VI, nell’esortazione apostolica Octogesima Adveniens (1971), denuncia il prefigurarsi di orizzonti quanto meno preoccupanti:

Con la crescita demografica che si avverte soprattutto nelle giovani nazioni, il numero di coloro che non riescono a trovar lavoro e sono costretti alla miseria o al parassitismo, andrà aumentando nei prossimi anni, a meno che un risveglio della coscienza umana non dia vita a un movimento generale di solidarietà attraverso un’efficace politica di investimenti, di organizzazione della produzione e della commerciabilità, come pure, del resto, di formazione. Ci è nota l’attenzione dedicata a questi problemi nei consessi internazionali, e vivamente auspichiamo che i loro membri non tardino a far seguire alle proprie dichiarazioni un’azione concreta.

In nessun’altra epoca come la nostra, l’appello all’immaginazione sociale è stato così esplicito. Occorre dedicarvi sforzi di inventiva e capitali altrettanto ingenti come quelli impiegati negli armamenti o nelle imprese tecnologiche. Se l’uomo si lascia superare e non prevede in tempo l’emergere delle nuove questioni sociali, queste diventeranno troppo gravi perché se ne possa sperare una soluzione pacifica.

San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Centesimus Annus (1991), accanto al riconoscimento della funzione del profitto, come un indispensabile indicatore del buon andamento dell’azienda, scrive:

Alla luce delle «cose nuove» di oggi è stato riletto il rapporto tra la proprietà individuale, o privata, e la destinazione universale dei beni. L’uomo realizza se stesso per mezzo della sua intelligenza e della sua libertà e, nel fare questo, assume come oggetto e come strumento le cose del mondo e di esse si appropria. In questo suo agire sta il fondamento del diritto all’iniziativa e alla proprietà individuale. Mediante il suo lavoro l’uomo s’impegna non solo per se stesso, ma anche per gli altri e con gli altri: ciascuno collabora al lavoro ed al bene altrui. L’uomo lavora per sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della comunità di cui fa parte, della Nazione e, in definitiva, dell’umanità tutta.

Egli, inoltre, collabora al lavoro degli altri, che operano nella stessa azienda, nonché al lavoro dei fornitori o al consumo dei clienti, in una catena di solidarietà che si estende progressivamente. La proprietà dei mezzi di produzione sia in campo industriale che agricolo è giusta e legittima, se serve ad un lavoro utile; diventa, invece, illegittima, quando non viene valorizzata o serve ad impedire il lavoro di altri, per ottenere un guadagno che non nasce dall’espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale, ma piuttosto dalla loro compressione, dall’illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro.

L’obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale. Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti.

E ancora, nel 2009 la voce di Benedetto XVI con l’enciclica Caritas in Veritate:

Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.

Alla luce degli stralci di Magistero ecclesiale può essere più semplice rispondere alle domande poste precedentemente. Probabilmente con il trascorrere del tempo si è rotto un equilibrio. Anzitutto dentro l’uomo. Ecco perché la riflessione punta alla riscoperta di una consapevolezza interiore dell’essere risorsa. Rispetto a quanto appena letto sarebbe opportuno domandarsi: in quale direzione siamo andati? Ogni uomo, ogni lavoratore dovrebbe essere in grado di porsi questa domanda, qualunque sia stato o sia il lavoro svolto.

La situazione di stallo nella quale ci ritroviamo non è stata prodotta da un’unica categoria di lavoratori. Il Magistero della Chiesa parla al e del singolo lavoratore, dell’azienda, dei corpi intermedi, dei pubblici poteri, dello Stato, del mercato. Non è vero che il bene sta sempre da una parte e il male dall’altra, e non possiamo certo dire che nel nostro Paese non esistano leggi in difesa del lavoro e del lavoratore.

È vero anche che molti processi di sviluppo sono stati osteggiati e che tante persone comuni, tanti professionisti, come il prof. Massimo D’Antona, hanno anche pagato con la loro vita. Questi uomini hanno avuto anzitutto il dono e la consapevolezza di essere seme, ancor prima che risorsa. Ognuno interroghi la propria coscienza. Siamo stati e siamo risorsa per questa società? Abbiamo soprattutto cercato e voluto essere risorsa? Ci stiamo adoperando perché le nuove generazioni scoprano di essere risorsa?

Per dirla con le parole di Papa Francesco e della Laudato si’ (2015):

Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Questa domanda non riguarda solo l’ambiente in modo isolato, perché non si può porre la questione in maniera parziale. Quando ci interroghiamo circa il mondo che vogliamo lasciare ci riferiamo soprattutto al suo orientamento generale, al suo senso, ai suoi valori. Se non pulsa in esse questa domanda di fondo, non credo che le nostre preoccupazioni ecologiche possano ottenere effetti importanti. Ma se questa domanda viene posta con coraggio, ci conduce inesorabilmente ad altri interrogativi molto diretti: A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi? Pertanto, non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra.

Per concludere in modo laico questa riflessione che, certo, non può essere totalmente esaustiva di tutti gli ambiti civili e gli aspetti sociali che occorrerebbe esplorare, cito l’articolo 1 della nostra Costituzione, un po’ bistrattato negli ultimi tempi: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Mai come oggi c’è lavoro per tutti: lavoro di pensiero, di creatività, di formazione, di squadra. Tutto questo per ripartire, per creare nuovi spazi di rinascita dentro ognuno di noi. Una rinascita per tutti.

Riscoprirsi risorsa è il primo passo necessario da compiere.

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