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sabato, Aprile 20, 2024

Fino a quando?

Il 2 novembre, giorno in cui ricorre la Commemorazione dei fedeli defunti, è ormai alle porte. Il pensiero, in questo spazio, corre spedito alle persone che hanno perso la vita sul posto di lavoro. Tante, troppe. Il report Inail, aggiornato al 29 ottobre 2021, fornisce un quadro molto chiaro della “insicurezza” sul lavoro: numeri, percentuali, previsioni che differiscono di anno in anno, mentre il risultato non cambia. Ancora oggi, nonostante gli sforzi compiuti a livello legislativo e non solo, si continua a morire nei luoghi di lavoro. Fino a quando?

Recuperiamo, intanto, una premessa: non si muore di lavoro. Mai. Eppure mi colpisce che l’espressione “morire di lavoro” non sia stata ancora completamente accantonata. Non è il lavoro ad uccidere e dovremmo saperlo dire a gran voce. Oggi, in modo particolare. Ci sono incidenti che non puoi prevedere, nonostante nei luoghi di lavoro sia tutto organizzato secondo quello che la normativa prevede in materia di sicurezza, e poi ci sono altri incidenti, causati da omissioni e scelte compiute dall’uomo nel mancato ossequio di quanto stabilito dalla legge. Dunque, occorre mettere ordine.

Fare ordine presuppone la disponibilità ad ascoltare il silenzio. E’ solo quando facciamo silenzio dentro e fuori di noi che ci accorgiamo dell’enorme rumore che producono le cose che ci circondano e che affollano il nostro cuore: luoghi comuni, slogan ormai privi di slancio, rancore, desiderio di vendetta, più che di giustizia.

Solo quando vogliamo fare silenzio, per non disturbare una persona cara che dorme, ad esempio, ci accorgiamo del fastidiosissimo cigolio che produce una porta mentre la chiudiamo o una busta della spesa mentre la riponiamo. Nel caso in oggetto, invece, il silenzio serve a ridestare le coscienze di chi dorme.

Il silenzio ci suggerisce anzitutto che, in questi giorni così particolari, dobbiamo pensare a chi è morto fisicamente per le insicurezze nei luoghi di lavoro, ma anche a chi è morto dentro, nonostante respiri ancora.

Sarebbe semplicistico parlare di responsabilità del datore di lavoro senza soffermarci a riflettere sul significato della parola responsabilità. Essere responsabili significa rispondere di qualcosa. Come posso rispondere di qualcosa se non rispondo anzitutto al comando della vita? Che valore può avere la vita dell’altro, se non so considerare anzitutto il valore della mia? Organizzare il lavoro secondo la normativa in materia di sicurezza vuol dire impegno a custodire la vita nostra e dell’altro. Vuol dire offrire all’altro spazi da abitare e non vuoti da riempire.

Non sono inutili scartoffie da compilare, archiviare e al momento opportuno esibire. Dentro tutta questa organizzazione del lavoro scorre la nostra vita e quella dell’altro.

Nel silenzio comprendiamo che la sicurezza nei luoghi di lavoro è una questione di educazione alla vita e al suo rispetto. Per questo sarebbe ingiusto parlare solo di responsabilità e non di corresponsabilità. L’uomo che oggi non risponde è un uomo che probabilmente non ha compreso cosa voglia dire fare parte di una comunità, di una società, essere pietra viva nella Chiesa, nel suo Paese, nel mondo. Di tutto questo, di questa enorme assenza la comunità, la società, la Chiesa, il Paese devono rispondere.

Domani, simbolicamente, deporrò un fiore su ogni tomba che accoglie le spoglie mortali di chi ha perso la vita sul lavoro e chiederò giustizia. Allo stesso tempo ne offrirò un altro a chi è morto dentro, a chi non coglie da tempo il profumo della vita ed ha smesso per questo di raccogliere l’invito ad una esistenza buona e bella.

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