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sabato, Aprile 20, 2024

Costituzione, diritto al lavoro, doveri. Intervista al Prof. Leonardo Bianchi

Termini come Costituzione, diritto al lavoro, doveri, iniziativa economica privata sono ogni giorno, o quasi, al centro  del dibattito pubblico. E poichè proprio il dibattito pubblico ha bisogno, oggi più che mai, di essere liberato dai luoghi comuni e dal qualunquismo, proviamo a fare chiarezza intorno al significato di questi termini con l’ausilio prezioso del *Prof. Leonardo Bianchi, docente universitario di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Firenze.

Prof. Bianchi, il primo articolo della nostra Costituzione recita che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Possiamo provare a ridefinire bene cosa questo principio esemplifica nel nostro tempo?

L’art. 1 della Costituzione esprime il cd principio lavorista, secondo la formulazione dovuta in Assemblea Costituente alla mediazione di Amintore Fanfani, quale fondamento della stessa forma democratica, ponendo il diritto al lavoro al primo posto tra i diritti sociali che incidono profondamente sulla nostra forma di Stato. Nel nostro tempo, ciò significa che il lavoro va posto al centro della riedificazione comunitaria di una cultura civica ed istituzionale condivisa quale dimensione fondativa dell’impegno dell’oggi per il domani, ricostruendo proprio sulla base del lavoro quella Costituzione in senso materiale di cui parlava Costantino Mortati, valorizzandone in più, tuttavia, il valore spirituale.

Nel quarto articolo della Carta, invece, leggiamo che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ad osservare quanto accade nel mondo del lavoro, le sue trasformazioni, sembriamo in realtà in presenza di un regresso sia materiale che spirituale. E’ come se il rispetto da adottare quando si sta al cospetto di un lavoratore, perché prima di tutto persona, cittadino e non suddito, non esistesse più, come se il livello di guardia massimo fosse saltato, fosse stato abbattuto e soppiantato dalle ormai famose ragioni di sopravvivenza che hanno di fatto aumentato le disuguaglianze sociali. Come è possibile (se lo è) riportare tutto questo all’interno della cornice costituzionale?

L’art. 4, II comma, da Lei citato, si riferisce al dovere al lavoro il cui adempimento è richiesto dalla Costituzione ad ogni cittadino. Si tratta di un dovere fondamentale – interfaccia del diritto al lavoro – che va senz’altro recuperato al patrimonio della cultura civica condivisa (guardiamo, ad esempio, al tema dei cd neet). Esso va inteso come dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale (in tal senso, anche il poeta o la monaca di clausura adempiono a tale dovere) della società. In casi estremi, come la guerra, il comune pericolo o l’epidemia, l’adempimento di tale dovere assume un significato più propriamente giuridico, come uno di quei doveri inderogabili di solidarietà di cui parla l’art. 2 della Costituzione. Ma, nella generalità dei casi, tale dovere esprime un’esigenza prevalentemente morale – come il dovere di voto, nella sostanza -, almeno finché lo Stato non potrà garantire a tutti un lavoro consono alle rispettive possibilità e scelte. Ciò non toglie che tali possibilità di scelta vadano contenute entro limitate categorie perché abbia senso di parlare di dovere al lavoro: sul piano anche culturale, ambizioni velleitarie non possono giustificare l’inadempimento del dovere al lavoro. Il punto centrale, tuttavia, è che il riconoscimento del diritto al lavoro, operato dal primo comma dell’art. 4, non corrisponde direttamente ad un principio assoluto di effettività, non è immediatamente azionabile: ecco perché il Costituente avvertiva subito che la stessa Repubblica, costituita dagli enti locali, dalle Regioni e dallo Stato, deve promuovere in permanenza proprio le condizioni per rendere effettivo tale diritto.

Attraverso quali buone prassi la Repubblica si sta impegnando a promuovere le condizioni di effettività del «diritto al lavoro», che riconosce a tutti i cittadini?

Sancire il diritto al lavoro esprime un imperativo costituzionale, morale e civile: l’art. 4 non è una norma meramente programmatica perché, combinata con l’art. 1, favorisce, giustifica e richiede interventi statali nell’economia per raggiungere la piena occupazione, in un quadro di programmi legislativi e di controllo sull’iniziativa privata, per indirizzarla a fini sociali: come emerge anche dalle indagini statistiche più recenti, ancora molta è la strada da fare in proposito!

Nelle imprese, piccole, medie o grandi che siano, può accadere che la prima violazione a verificarsi sia quella che riguarda una regola base, la giusta retribuzione del dipendente, diritto riconosciuto e sancito dall’articolo 36 della nostra Costituzione. Proprio per combattere la piaga dei finti stipendi e delle finte buste paga, all’esame della commissione Lavoro della Camera vi è un disegno di legge recante “disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori”. Il proliferare di leggi (che di per sé non sanciscono delle novità nel diritto, ma sono funzionali al rispetto del comando supremo del “non rubare”) non è motivato o non rappresenta forse un tentativo ( anche pericoloso) di occupare uno spazio che dovrebbe essere pervaso dal coraggio del cittadino di esercitare la propria libertà ad opporsi al sopruso?

La proliferazione delle leggi è tema sempre più attuale, collegato ad un uso sempre più distorto e vicino all’abuso del diritto, tanto più dalle parti economicamente più forti, come accade in primo luogo nel mondo del lavoro, ma anche in quello dell’utenza, del consumo e così via: ma non varrà mai a sostituire quel crollo di etica pubblica che anche nel settore dell’economia e dell’impresa, non meno che nella politica, nella finanza e nell’informazione, impone una rigenerazione in tutta la filiera della società. In casi come quelli da Lei citati, occorre che il cittadino – lavoratore abbia consapevolezza dei propri diritti ed il coraggio di esercitarli nella convinzione che l’abuso è della controparte (nello stesso senso, è fondamentale lavorare sul versante dell’etica d’impresa, magari valorizzando le nostre associazioni del settore lavoro, come UCID, ACLI, MCL). In questo senso, è fondamentale che sia azionabile davanti al giudice il diritto ex art. 36 del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto e comunque sufficiente a garantire a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa: esso si articola in due momenti distinti: a) l’adeguatezza della retribuzione rispetto alle prestazioni svolte; b) la congruità della stessa per vivere un’esistenza dignitosa (sentenza n. 36/80 della Corte costituzionale). Quanto alla distorsione specifica, questa è legata ad una situazione di diseguaglianza di fatto che legittima ed anzi esige interventi correttivi da parte statale in base a quanto richiesta dall’art. 3, comma 2, della Costituzione, cioè il principio di eguaglianza sostanziale che riassume e fonda l’intervento pubblico a favore delle categorie e dei soggetti meno protetti, tra cui i lavoratori subordinati e la donna lavoratrice. Mette conto pure ricordare che, secondo la Cassazione, il minimo retributivo non possa essere derogato neanche in considerazione della situazione economico – finanziaria dell’impresa. Ciò detto, occorre un fondamento giuridico della tutela, ma anche la rigenerazione complessiva della società in termini di cittadinanza attiva.

Secondo quanto riconosciuto dalla nostra Costituzione, articolo 41, “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Recentemente Lei ha richiamato l’attenzione sul tentativo di modifica dell’articolo 41, avanzato in passato dal ministro dell’Economia del Governo Berlusconi. Perché? In quale direzione andava quella modifica?

Si tratta di operazione riconducibile alla responsabilità, in quel Governo, del Ministro Tremonti, diretta a ridurre sia i vincoli alla libertà di impresa riferibili all’utilità sociale nel nome di “una rivoluzione liberale che renda possibile tutto ciò che non è proibito”, sia la garanzia della riserva di legge, prevista dal III comma dell’art. 41, sulla determinazione dei programmi e dei controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Ciò richiama la necessaria, costante manutenzione della nostra Costituzione sia formale, sia anche nel senso insieme materiale e spirituale di cui si diceva all’inizio: anche perché incertezze e ritardi del legislatore nel rimuovere i vincoli inutili alle attività economiche non sono imputabili alla norma costituzionale, ma ad incapacità di scelte legislative ed amministrative. Il modello costituzionale è coerente con un disegno di centralità della persona nel conferire al legislatore il compito di ricercare, caso per caso, il giusto equilibrio tra l’esercizio della libertà d’impresa e gli altri valori costituzionalmente rilevanti.

Papa Pio XI, nell’enciclica Quadragesimo Anno, ricorda che nello stabilire la quantità della mercede all’operaio si deve tenere conto delle condizioni in cui versa l’azienda. “È però vero che se il minor guadagno che essa fa è dovuto a indolenza, a inesattezza e a noncuranza del progresso tecnico ed economico, questa non sarebbe da stimarsi giusta causa per diminuire la mercede agli operai, i quali, spinti dalla necessità, sono costretti a contentarsi di un salario inferiore al giusto”. Le difficoltà economiche esistenti, che hanno generato delle conseguenze a livello occupazionale davvero preoccupanti, le trasformazioni nel mondo del lavoro come il telelavoro o lo smartworking, hanno in qualche modo inaugurato una nuova concezione del cosiddetto “rischio d’impresa” spostandone maggiormente l’asticella sulle spalle del lavoratore?

Di fatto è quanto accaduto, ma non va neppure dimenticato che viviamo in un Paese in cui al debole indice di occupazione si sposa una sempre più accentuata difficoltà di fare sanamente impresa. E’ vero che qua e là è dato registrare significativi segnali in controtendenza, ma noi dobbiamo assumerli come spunti di ripensamento globale di tutto il sistema, come ricerca di vie per riformarlo e correggerlo in modo coerente con i diritti fondamentali dell’uomo, di tutti gli uomini, come ricorda ripetutamente Papa Francesco. E’ tutto l’assetto del mondo del lavoro e dell’impresa che va riprofilato in una prospettiva di attuazione della Costituzione, partendo dalla constatazione che una parte troppo ampia e significativa della stessa Costituzione economica è ancora sostanzialmente inattuata, anche per motivi legati sia ad uno sviluppo delle relazioni industriali essenzialmente impostato su basi conflittuali, sia ad una sorta di “pensiero unico” che un certo modo di intendere la globalizzazione di fatto impone. Basti pensare ai cd extraprofitti di certe companies, sovente a detrimento sia dei lavoratori, sia degli utenti, o ai lussuosi stipendi accompagnati da altrettanto lussuose liquidazioni (sovente erogate anche in caso di performance non propriamente brillanti) di un certo numero di supertopmanager. Condizione pregiudiziale per il ripensamento globale di cui sopra è l’assunzione di una robusta dose di etica d’impresa tra i datori di lavoro – ma anche di etica del lavoro tra gli stessi lavoratori –, ma certamente idonea a trasformare l’ambiente di lavoro in comunità è anche l’attuazione della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese ex art. 46 Cost.

Al recente incontro pubblico “Attuare la Costituzione, un dovere inderogabile”, organizzato da Paolo Maddalena, Vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, e svoltosi a Roma, lo scorso 22 gennaio, Lei ha esordito affermando che nel nostro Paese c’è sempre meno speranza, ma sempre più voglia di sperare. Quali passi bisognerebbe compiere per sostenere la speranza nel nostro Paese?

Il punto merita ben altro spazio, ma, per partire: I) vivere fino in fondo questo paradosso con un’operazione – verità che elimini gli alibi di quanti sono già presenti nelle istituzioni ed intendono la politica solo come la “loro”, per concludere che alternative a se stessi non ci sono; II) nell’attuazione dell’insegnamento sociale cristiano e della Costituzione elaborare un progetto che recuperi il rapporto tra cittadini ed istituzioni sulla base di valori condivisi, tale da restituire alla persona la sua centralità ed alla politica al sua funzione, consapevoli che l’interpretazione della DSC in rettitudine di coscienza e spirito di servizio al bene comune può giustificare un range di soluzioni, ma non tutte ed il loro contrario; III) promuovere una rigenerazione di tutto il tessuto sociale, economico, informativo, culturale e politico, basata sul rapporto tra pensiero ed azione legati dalla preghiera.

 

*Il Prof. Bianchi è Vicepresidente del Collegamento Sociale Cristiano – Amici di Supplemento d’anima; Referente dei Gruppi di Dottrina Sociale della Chiesa della Toscana

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