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giovedì, Aprile 25, 2024

Chi difende il lavoro?

Per rimanere fedele alla mission del blog, devo anzitutto andare a recuperare una premessa che abbiamo smarrito: il significato della parola lavoro. Per farlo possiamo inizialmente verificare a quale delle due definizioni esistenti (che a breve presenterò) diamo maggiore credito o quali difendiamo:

Il lavoro è qualsiasi esplicazione di energia volta a un fine determinato (Treccani);

Il lavoro è un’attività transitiva. C’è un soggetto e un oggetto. Il soggetto è l’uomo, l’oggetto è ciò che l’uomo trasforma con il suo lavoro. Quindi con il mio lavoro trasformo la realtà che ho intorno e trasformo me stesso (Dottrina Sociale della Chiesa).

Ognuna delle due definizioni contiene l’altra, ma non sempre il nostro modo di lavorare riesce ad essere una esemplificazione di tale intreccio. Ecco perché diventa necessario recuperare la premessa smarrita: che cos’è per me il lavoro? Qual è il fine che desidero raggiungere e che difendo?

Il fine sono soltanto io e la mia sopravvivenza, a qualunque costo? Se la risposta è affermativa, comprendiamo come non abbia rilevanza per me la distinzione tra lavoro, come fonte di reddito, e sussidio, come fonte di sopravvivenza. In questa condizione il mercato del lavoro lascia spazio ad un semplice mercato di interessi di parte.

Se il fine non sono soltanto io e la mia sopravvivenza, ma io messo in relazione con il mondo, allora per me sarà impossibile equiparare la condizione di lavoratore a quella di assistito, la sopravvivenza al benessere.

Mi rendo conto che è un modo abbastanza “crudo” di presentare la realtà, ma credo che oggi ci sia un assoluto bisogno di mettere a nudo le povertà che si annidano dentro di noi per diversi motivi:

nella migliore delle ipotesi sono possibile conseguenza di ingiustizie subite. Quante volte abbiamo parlato di conquiste, quando quelle conquiste erano ben al di sotto dei diritti di cui avremmo dovuto/ potuto godere? Tutto questo può aver tirato fuori il peggio di noi o averci fatto dimenticare che un mondo più giusto è sempre possibile;

nella peggiore delle ipotesi sono frutto di una mancata formazione al lavoro. Insomma, nessuno ci ha mai testimoniato una realtà contraria e contro le ingiustizie e l’ignoranza di quei principi e valori posti a fondamento di una comunità civile.

Se non ho chiaro cosa sia per me un lavoro, come posso, ad esempio, parlare di lavoro più sicuro?

Non possiamo dire di vivere in un mondo ingiusto solo se è qualcun altro a proporci condizioni di lavoro ingiuste. Quanti sono oggi i percettori di reddito di cittadinanza ( o di altri sussidi) che chiedono di lavorare in nero? Quanti sono i lavoratori che chiedono contratti più “miseri” ( pur non rinunciando ad una retribuzione corposa) per poter usufruire di agevolazioni e bonus vari? Un contratto più povero significa minori tutele per la salute e la sicurezza.

Come siamo giunti fino a questo punto? Se noi, per primi, non difendiamo il lavoro, come possiamo sperare che la classe politica di questo Paese possa essere continuamente spronata a farlo? Quali sono le sue responsabilità di fronte a tale declino morale, ancora prima che materiale?

Come possiamo vincere l’illegalità? Come possiamo incentivare la sicurezza sul lavoro se la premessa è anzitutto un “chi se ne frega” che parte da me? Per riprendere il sopracitato esempio: se ricevo un sussidio e chiedo di lavorare senza contratto, quale sicurezza sul lavoro chiedo per me? Nessuna. Il punto, però, è che è l’interessato a non avere cura di sé stesso, chiedendo determinate condizioni, ancora prima dell’azienda.

La ricorrenza del Primo maggio si fonda sul sacrificio di lavoratori che chiedevano condizioni di lavoro più giuste. Oggi non so chi porti ancora avanti quelle battaglie e, soprattutto, per chi.

Le recenti rilevazioni di Eurostat ci consegnano una realtà davvero preoccupante, ma non posso fare a meno di domandarmi in che modo, quelle inquietanti percentuali, possano intercettare il sottobosco che ho menzionato.

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