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martedì, Aprile 23, 2024

Buste paga: qualcosa di nuovo, anzi di antico, nel ddl Di Salvo

Appare a tratti surreale ritrovarsi a riflettere e a scrivere su argomenti che rimandano all’esistenza di contratti di lavoro degni di questo nome, di buste paga, mentre il dibattito pubblico è pressocchè assorbito dalla questione annosa “voucher sì, voucher no”. E’ quasi come uscire da un tunnel, con la certezza che i contratti di lavoro, a tempo determinato o indeterminato, come anche l’impegno a favore di una giusta retribuzione, nel rispetto dei diritti costituzionali, continuano a rappresentare, seppur timidamente, i punti cruciali dai quali non è possibile prescindere quando si parla di lavoro e quando al centro di tutto vogliamo porre la persona.

Alle porte della Giornata Internazionale della Donna, pertanto, focalizziamo la nostra attenzione sul disegno di legge, Atto Camera 1041, Disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori”.  La proposta, presentata alla Camera dei Deputati il 23 maggio del 2013 e in corso di esame in Commissione dal 19 gennaio del 2017, è proprio di iniziativa di una donna, la deputata Titti Di Salvo, prima firmataria. Oltre a rilevare in proposito quanto sia importante il ruolo della donna nella politica, tanto più quando il suo impegno è a favore di tutti i lavoratori, è davvero difficile comprendere perchè una questione come quella delle irregolarità relative alle buste paga sia stata tralasciata per così tanto tempo. Con la discussione e approvazione tempestiva di questa legge avremmo potuto arginare quei soprusi che, “in nome della crisi”, sono stati perpetrati senza alcuna vergogna, sempre ai danni del più debole.

Nella prolusione che accompagna la proposta di legge vi è infatti scritto che essa

“offre una soluzione a un problema che colpisce moltissimi lavoratori. È infatti noto che alcuni datori di lavoro, sotto il ricatto del licenziamento o della non assunzione, corrispondono ai lavoratori una retribuzione inferiore ai minimi fissati dalla contrattazione collettiva, pur facendo firmare al lavoratore, molto spesso, una busta paga dalla quale risulta una retribuzione regolare. Tale prassi deprecabile rappresenta un grave danno per i lavoratori i quali vengono non solo depauperati di parte del lavoro prestato, ma sono lesi nella loro dignità e nel diritto a una giusta retribuzione, in violazione degli articoli 1, 35 e, soprattutto, 36 della Costituzione”.

Quali sono le novità introdotte dal disegno di legge?

Il primo punto nevralgico del provvedimento è quello che stabilisce che non sia il datore di lavoro a mettere nelle mani del dipendente somme in contanti e/o assegni. Il lavoratore, infatti, per la riscossione della sua retribuzione potrà scegliere tra le seguenti opzioni:

  • avere un accredito diretto su conto corrente;
  • essere pagato in contanti presso uno sportello di un istituto di credito o bancario;
  • ricevere direttamente dall’istituto bancario o postale assegno emesso da questi in suo favore.

L’art. 2 della proposta di legge stabilisce che “in conformità a quanto disposto dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, il datore di lavoro o committente inserisce nella comunicazione obbligatoria, fatta al centro per l’impiego competente per territorio, gli estremi dell’istituto bancario o dell’ufficio postale che provvede al pagamento della retribuzione, ovvero una dichiarazione di tale istituto o ufficio che attesta l’attivazione del canale di pagamento a favore del lavoratore”.

Il datore di lavoro che trasgredirà i propri doveri potrà, inoltre, essere sottoposto ad una sanzione amministrativa o pecuniaria consistente in una somma oscillante dai 5000 ai 50.000 euro (art. 5). Sono esclusi dal provvedimento coloro che non sono titolari di P. I.V.A e “in ogni caso, i rapporti di lavoro di cui alla legge 2 aprile 1958, n. 339, nonché a quelli comunque rientranti nella sfera applicativa dei contratti collettivi nazionali per gli addetti a servizi familiari e domestici, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale” (art. 4).

Il secondo punto nevralgico del disegno di legge Di Salvo è quello sancito al punto 4 dell’articolo 1: “La firma della busta paga apposta dal lavoratore non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione”.

Le novità racchiuse nel disegno di legge non sono poche o irrilevanti.

Non possiamo non evidenziare, tuttavia, come continuiamo a non colpire al cuore il vero problema. L’istituzione dell’intermediario, istituto bancario o postale che sia, che consentirà al lavoratore di avere nelle mani la dovuta retribuzione, in che modo impedirà al datore di lavoro di esigere, sempre sotto minaccia di licenziamento, parte dello stipendio riscosso dal lavoratore? Non è fantascienza, è la realtà. Chi potrà assistere alla seconda parte della storia, quella che prende forma lontanto dai riflettori, se non, ancora una volta, i due attori principali, ossia, datore di lavoro e dipendente? Come agire in questa zona d’ombra?

Che posto occupano i rapporti di lavoro e la loro qualità nel dibattito relativo al lavoro che cambia?

Come sarà possibile crescere, produrre, in un clima di continuo sospetto? Come sarà possibile vivere la solidarietà all’interno di un’azienda se l’altro sarà un avversario da cui occorrerà sempre difendersi?

La legge, per quanto puntuale possa essere, non può sostituirsi alla coscienza e rimane da stabilire, inoltre, se l’urgenza di dover regolamentare a tal punto i rapporti di lavoro esprima una conquista di civiltà o il tentativo di recupero di una civiltà smarrita.

 

 

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