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Verso la 48ma Settimana Sociale dei Cattolici Italiani: conversazione franca con il prof. Luca Diotallevi

La 46ma Settimana Sociale dei Cattolici Italiani tenutasi a Reggio Calabria nel 2010 si concluse consegnando al Paese un’agenda di speranza per il suo futuro. A distanza di sei anni proviamo ad individuare insieme a *Luca Diotallevi, professore di Sociologia all’Università Roma Tre, già Vicepresidente del Comitato Scientifico e Organizzatore che curò i lavori di RC, quante di quelle speranze si sono concretizzate in riferimento al mondo del lavoro.

Prof. Diotallevi, la regolamentazione del mercato del lavoro ebbe un posto cruciale nella riflessione di Reggio Calabria, tanto che venne auspicata una riforma che “avrebbe dovuto spingere più decisamente il mercato del lavoro nella direzione di una combinazione di flessibilità e sicurezza (flexicurity) declinate in funzione delle caratteristiche e dei vincoli specifici del contesto italiano”. La riforma avviata con il Jobs Act ha risposto a questa esigenza?

Una delle poche cose a me piaciute del governo Renzi è stato il cosiddetto Jobs Act. Si è trattato di un provvedimento che andava nella direzione giusta. Non era perfetto. Ma un conto è migliorarlo, andando nella direzione da Lei richiamata, un conto è attuare una controriforma, quale quella che vogliono i promotori del referendum. Il governo Renzi, dal mio punto di vista, anche in questo ambito ha difettato di coerenza e di tempestività. La “buona scuola” è stato un provvedimento consociativo e clientelare e la riforma della PA … troppo poco riforma.

Riprendere a crescere verso e secondo il bene comune, si legge nel documento preparatorio alla 46ma Settimana Sociale, “è un modo per rispettare i diritti di chi diventa adulto, di chi è appena nato, di chi sta crescendo”. Dai risultati dell’indagine ”Avere vent’anni e pensare al futuro”, compiuta nell’ambito del progetto “Job to Go, il lavoro svolta!” realizzato dalle Acli di Roma e dalla Cisl di Roma Capitale e Rieti, su un campione di 1000 partecipanti di età compresa tra i 16-29 anni, è emerso che il 65{cbd9c1faeba5711866380b8c9dfc181d05577eef0adb5294792d39edd3158544} del campione intervistato è disposto a rinunciare a contratti regolari e diritti del lavoro in cambio di una qualunque occupazione. Non è allarmante pensare che diritti fondamentali come indennità di malattia, ferie, maternità possano essere quasi interpretati come degli ostacoli nella ricerca e nell’ottenimento di un lavoro?

No, non è allarmante. E’ realismo. I diritti sociali sono una ideologia. Sono un modo ipocrita per far apparire come gratuita la redistribuzione delle opportunità. Invece, redistribuire le opportunità ha un costo. Quel costo va pagato. Per pagarlo bisogna generare ricchezza. Chi lo nega è un maligno o un moralista, ovvero solo un maligno timido ed ipocrita. Se non riprende la crescita non abbiamo nulla o quasi da redistribuire. La cultura dei diritti sociali ha generato debito pubblico, una aristocrazia di garantiti (protetta da un pessimo sindacalismo) e ha generato grande deprivazione. Io credo nella battaglia per la redistribuzione delle opportunità e credo che, per farla, occorre affrontarne i costi.

Una generazione che rinuncia ai suoi diritti nel presente, quale mondo potrà consegnare alla storia e alle future generazioni? Sarà capace di tramandare soprattutto il valore di qualcosa che non ha conosciuto, di cui non ha goduto, di cui ha sentito solo parlare, anche con toni di superficialità? Che significato darà a parole come crescita, sviluppo, se ha vissuto in un momento storico in cui il regresso è stato spacciato per progresso?

I giovani che hanno combattuto per la indipendenza del paese nella Prima Guerra Mondiale, contro Nazismo e Fascismo durante la Seconda, e contro il comunismo dopo la Seconda hanno rinunciato a non poco. Il volume dei sacrifici lo decide la storia e le circostanze. Noi possiamo solo scegliere se affrontare quei costi o no.

L’Italia non è soltanto la Nazione dalla quale i cervelli fuggono per cercare altrove “collocazione” adeguata, ma anche il Paese dove le persone più competenti, quelle che provano a mettere in campo tutte le forze necessarie per servire il bene comune, vengono messe all’angolo, condannate ad un esilio insopportabile, da scontare paradossalmente nella propria terra. Quale generatività è possibile in un contesto di istituzioni estrattive più che inclusive?

Ma la vogliamo smettere di trastullarci con formule consolatorie e depistanti come “generatività”, “economia del dono” e simili? Ma le ha mai sentite in bocca a Sturzo o De Gasperi? Pensa che ai tempi loro non c’era chi ne metteva in giro di simili? Nello scontro civile, che è sempre una dinamica salutare, se i “buoni” perdono è solo con se stessi che si debbono arrabbiare. Io penso che i suoi “buoni”, che poi per inciso sono anche i miei, debbano chiedere perché non sanno mettersi insieme, aggregarsi, organizzare, ottenere consenso. La politica, come ogni azione sociale, è uno sport senza arbitro. (E dunque più pulito, non meno pulito. Perché l’arbitro è sempre una finzione. Al fondo un monumento all’empietà, a volte utile, ma mai assolutizzabile. Per questo quelli che di sport si intendono, britannici e statunitensi, non se la prendono mai con l’arbitro. Ha mai guardato una partita di rugby o di basket? Altro che moviola in campo!) Se perdi è colpa tua.

Il tema della prossima Settimana Sociale è “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale”. In una recente intervista pubblicata su Agensir, Mons. Santoro, rispetto alla difficile situazione che vive l’Italia dal punto di vista occupazionale, ha affermato che “occorre prendere atto di una mobilità lavorativa necessaria alla quale non siamo affatto abituati e al contempo non perdere di vista che il lavoro non è soltanto il mezzo per la sussistenza, ma la condizione mediante la quale una persona si realizza”. Non è forse vero che oggi è sempre più difficile che le due dimensioni coesistano? Che il termine “realizzazione” lascia spazio a numerose interpretazioni?

E perché non il Milan che vogliamo, la frittata che vogliamo o il tramonto che vogliamo? Il richiamo alla realizzazione, la promessa di una realizzazione, non fa i conti con il peccato originale ed il conflitto che segna il secolo sino alla parusia. Se vuoi più lavoro, ma se lo vuoi davvero, devi chiedere più impresa – innanzitutto – e poi più mercato, più ricerca, più finanza, più libertà di commercio. E, perché sia chiaro, tutto questo vale al Sud, ed ormai anche al Centro, 1000 volte di più di quanto vale sopra il Po.

 

* Il prof. Luca Diotallevi,  ha trascorso periodi di studio anche presso le università di Bielefeld, Oxford, Harvard e Cambridge. E’ stato senior fellow presso il Center for the Study of World Religions della Harvard Divinity School (Harvard University). Autore di diversi saggi, editi dalla casa editrice Rubbettino: Una alternativa alla laicità (2010), L’ultima chance (2011), La Pretesa (2013), L’ordine imperfetto (2014).

Dal 2015 è direttore del Master di II Livello in Scienze della Cultura e Religione (Università Roma tre)

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